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ROB REINER, sales@capitalpictures.com. Supplied by Capital Pictures
Non pensiamo di esagerare se scriviamo che Rob Reiner ha contribuito a costruire le fondamenta della Hollywood degli anni ’80. I migliori anni di una generazione, la nostra, che volentieri si attarda ancora sulle interminabili riproposizioni televisive (a Natale poi…) di quei film ipercolorati e scintillanti, di promesse mantenute ed emozioni “a presa rapida”. Il trionfo della volontà e dell’ottimismo che allora alimentava il nostro immaginario di bambini con la convinzione che ogni storia potesse trovare un ordine, un lieto fine, e che oggi offre ancora un riparo, un paesaggio mentale rimpianto. In questa temperie sfacciatamente trionfante e spesso superficiale, il nome di Reiner non ebbe mai l’allure poetica e autoriale degli Spielberg, dei Zemeckise nemmeno dei John Hughes. Per anni, la critica più pigra ha etichettato Reiner come un solido "mestierante". Un errore di prospettiva madornale. In un decennio di fumi ideologici, star wars ed effetti speciali, Reiner ha percorso la strada dell’invisibilità, preferendo far parlare i suoi film. E che film. Tra il 1984 e il 1989, Reiner ha infilato un poker che, statisticamente e artisticamente, ha del miracoloso: This Is Spinal Tap, Stand by Me, La storia fantastica, Harry, ti presento Sally.... Successi che hanno alimentato il sistema emotivo di più generazioni. Ha inventato il linguaggio del finto documentario, ha codificato la nostalgia dell'infanzia maschile ("Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni"), ha salvato la fiaba dall'ironia distruttiva e ha scritto la grammatica definitiva della commedia romantica. La sua regia non era assenza di stile, ma un supremo atto di cortesia verso la storia. Un "classicismo funzionale".


In Harry, ti presento Sally..., durante la celebre scena dell'orgasmo simulato, la macchina da presa di Reiner ad esempio non fa niente. Resta lì, alla giusta distanza giusta. Abbastanza vicina da cogliere l’imbarazzo di Harry, abbastanza lontana da non trasformare Sally in un fenomeno da baraccone. E quando la scena potrebbe scivolare nel compiacimento, arriva l’ironica stoccata dell’anziana cliente che ordina: "Prenderò quello che ha preso lei". Quella donna era Estelle Reiner, la madre del regista. Perché il cinema per Reiner ha sempre avuto qualcosa delle vecchie riunioni di famiglia. Caldo, intimo, ma non privo di punzecchiature e amarezze. Con Harry ti presento Sally…, Reiner reinventa la rom-com moderna basandola sull’impaccio emotivo, l’ineluttabilità dei sentimenti, ma anche la consapevolezza del tempo che passa. La messa in scena, come una partitura musicale, alterna scene di dialogo (dove il montaggio deve essere invisibile e precisissimo) ad ellissi che traghettano i corpi degli innamorati tra stagioni, anni, cambiamenti di città, limando, sequenza dopo sequenza, il mito dell’amore. È un film che vive della fiducia negli attori e nella scrittura, ma anche nel destino. Reiner cambiò l’idea iniziale del finale in un senso più “felice”, dopo essersi innamorato in quella fase della sua vita.


Stand By Me @Webphoto
Non era un ottimista ottuso. Tre anni prima aveva firmato uno dei più belli e dolorosi coming of age dell’epoca, Stand by Me – Ricordo di un’estate (1986). È il film che meglio spiega cosa si nascondeva dietro quel sorriso affabile. Un racconto sul lutto mascherato da avventura. Laddove però l’incontro con la morte di uno dei ragazzi non è presa di coscienza della caducità di ogni cosa, ma tappa di un cammino, quello di quattro ragazzini sulle rotaie. Un’altra delle immagini “facili” di Reiner, che dicono molto se non tutto: l'amicizia, il viaggio, la paura di non contare nulla, l'idea che la vita inizi davvero quando smetti di essere al sicuro. Il finale poi è un pugno nello stomaco e un’altra lezione di stile: Chris Chambers, ci informa la voce narrante, è morto anni dopo, accoltellato per sedare una rissa. Non c’è enfasi. La notizia arriva secca, brutale, esattamente come arrivano le tragedie nella realtà. Anche questo è un momento di crescita. Per i protagonisti e per noi spettatori.


Misery non deve morire @Webphoto
Questo talento nello spiazzamento Reiner lo ha coltivato anche dopo. Era un camaleonte dei generi. Passava dal legal drama (Codice d’onore) al thriller psicologico (Misery non deve morire) con ammirevole disinvoltura. Eppure, Reiner cercava sempre la stessa cosa: la verità dei personaggi.
Non a caso Reiner era un regista che amava gli attori: figlio d’arte di Carl Reiner, cresciuto in una casa dove la comicità era pane quotidiano e disciplina, e poi formato sul campo con All in the Family. Stare dall’altra parte dell’inquadratura non gli procurava disagio. Come attore, Reiner ha continuato a comparire sullo schermo in ruoli memorabili, da Cartoline dall'inferno (1990) di Mike Nichols (1990) a The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese, passando per Insonnia d'amore (1993) di Nora Ephron e Pallottole su Broadway (1994) di Woody Allen, dimostrando una versatilità rara e una comicità sottile. Per questo non chiedeva agli interpreti di piegarsi alla sua “visione” ma di costruirla insieme. Credeva nella collaborazione, in una regia che preparasse insieme il terreno - fiducia, ascolto - finché la scena non cominciava a respirare da sola. E in set come quello di Misery non deve morire, riusciva a far convivere l’istinto di James Caan con la meticolosità teatrale di Kathy Bates.


La storia fantastica, @Webphoto
Ma Reiner non era solo un professionista gentile. Aveva spigoli e passioni, e non li ha mai nascosti. Se con Castle Rock Entertainment ha contribuito a modellare l’industria, con l’attivismo politico si è esposto in modo nettamente liberal schierandosi con i democratici (di cui è stato appassionato fundraiser) su battaglie molto concrete (dalla campagna per il matrimonio egualitario alle politiche per l’infanzia e la prima educazione), non risparmiando critiche a Donald Trump (in un’intervista del 2018 lo definì apertamente un “criminale”).
Era un privilegiato, certo. Un figlio di. Ma il privilegio non scrive una Storia fantastica. Come dichiarò al Guardian più di un anno fa: “Le porte si aprono, poi però devi consegnare la merce”. Lui l’ha consegnata. E oggi ci accorgiamo quanto fosse rara.
