Storie (stra)ordinarie degli abitanti di Pelourinho, nel cuore di Salvador, durante l'ultimo giorno di Carnevale: tra bisogno di denaro, acqua tagliata, religione coatta e libero candomble, lavoro e lavoretti, ecco donne e uomini, sopravvivenza ed esistenza, con un Leit-motiv: la musica. E' O Pai O (Oh guarda oh) di Monique Gardenberg, inserito nella sezione Occhio sul Mondo /Focus dedicato al Brasile.
Sezione, che finora è la più interessante del Festival di Roma, specchio fedele, e quindi eterogeneo, della produzione del Paese sud-americano, che non è solo, come potrebbe apparire a occhi europei - accecati dalla distribuzione - Cidade de Deus e Tropa de Elite, ma un caleidoscopio, in cui il gusto iperbolico e cannibale, già peculiare al Cinema novo, si fonde e oppone alla tensione del reale di matrice documentaristica.
E' il caso di O Pai O, protagonista il divo afro-bahiano Lazaro Ramos, che intreccia splendidi corpi, pulsioni sessuali, ridente ironia a miseria, violenza sui minori e delinquenza, in un melting-pot visivo che è diretta emanazione dell'antropologia bahiana: senza intenti moralistici né velleità di denuncia, il film si fa piacevolissima finzione, letteralmente Carnevale, per gettare la maschera dello stato dell'arte, ovvero aprire squarci di indagine Doc, che una forma cinematografica più pedante, seriosa - e compiaciuta - avrebbe inteso etnografici. Invece no, O Pai O "si accontenta" di essere commedia e musical, tallonamento gioioso e paradigma sociologico, condito dai colori, i suoni e i volti del cuore di Bahia, il Pelo. Finisce in tragedia, ma si esce dalla proiezione col sorriso sulle labbra: se non è un miracolo, di questi tempi...