Quanto è prolifico François Ozon. Prolificissimo. Dal 1998, allorché esordì con Sitcom, a oggi, in ventisei anni ha realizzato ventidue lungometraggi: l’Ozonterapia è coazione a ripetere, ma non - film alla mano - ripetersi, tanto nella poetica quanto negli esiti.

L’ultimo della nidiata è Mon crime, adattamento dell’omonima pièce di Georges Berr e Louis Verneuil (1934): arriva nelle nostre sale prima del penultimo, Peter von Kant, battezzato alla Berlinale 2022. Com’è Mon crime? Insomma.

È della schiatta dei tanti – troppi? – medi del regista e sceneggiatore francese classe 1967: ha dalla sua un cast dovizioso, costumi e scenografie degne di nota, l’eleganza di tratto, una certa nonchalance, ma nulla più.

Come apoditticamente sosteneva Jep Gambardella, “è così triste essere bravi: si rischia di diventare abili”, e siffatta tristezza deve albergare in Ozon: con qualche generosità, Mon crime è persino impeccabile, ma non è riuscito.

Artefatto con manifesta consapevolezza, da servirsi col tè delle cinque, si abbevera alla fontana del qui e ora ideologico, il femminismo e i suoi derivati di epoca #MeToo, e si asciuga la bocca con la riflessione sul dispositivo, inveterando il binomio persona-personaggio, verità-finzione, scena e messa in scena e chi più ne ha.

Problema, l’esprit de geometrie solo nelle apparenze, se volete, nello stile trascende alla finesse: per tagliare corto, lungi dall’essere vérité, l’effetto è diorama, col rischio sensibile della sottovalutazione, in quota cinema de papa, e della rubricazione nel “carino” che, invero, ci sta.Per darvi un’idea, nulla mi ha stupito nei 102 minuti di durata più di ritrovare Dany Bon impomatato, con i baffetti, i riccetti con la riga in mezzo, un po’ bellimbusto e un po’ gagà quale l’architetto marsigliese Palmarède: già abbrivio con Giù al Nord dei campioni d’incassi patri Benvenuti al Sud e al Nord, l’attore è suscettibile di interesse, ma può essere il punto focale?

Comunque, 1935, Parigi: Madeleine Verdier (Nadia Tereszkiewicz, Les Amandiers) è una giovane attrice, senza arte né parte né quattrino, però carina. Convive nella solita soffitta, con i soliti problemi di affitto, con l’amica avvocata Pauline Mauléon (Rebecca Marder, Une jeune fille qui va bien), finché non viene accusata, ovvero si accusa, dell’omicidio di un rapace produttore.

La stampa fa da grancassa, il dibattimento in aula, ben istruito da Pauline, ancor più, sicché Madeleine non solo viene assolta, bensì beneficiata di gloria e successo.

E la verità?

Come il paradiso: può attendere, me neanche tanto, ed eccola palesarsi nelle icastiche fattezze di Odette Chaumette (Isabelle Huppert), diva del muto finita, again, in soffitta. Nel cast anche due pezzi di pregio quali Fabrice Luchini e André Dussollier, Mon crime chiama in correità il pubblico: si vorrebbe gioisse per la squisita fattura, la soavità degli interpreti, l’esibito divertissement, il marchio, a dirla tutta mutaforma, di Ozon.

Eppure, la gioia è calmierata, contingentata, sì, piccina assai: non sarà la copia di mille riassunti, la Ventiduesima del Nostro, di certo è copia conforme di un originale forse mai esistito. Sì, un simulacro imbellettato, che ci fa riflettere da un lato sulla dispersione del genio, o qualcosa del genere, e dall’altro sull’assuefazione al prodotto, e al produrre. Non è forse anche questo un crimine o - esageriamo? - un duplice omicidio: il talento e la necessità, entrambi a terra.