Latina, anni '60, una famiglia proletaria, padre (Massimo Popolizio), madre (Angela Finocchiaro) e tre figli: Violetta (Alba Rohrwacher), Accio (Vittorio Emanuele Propizio) e Manrico (Riccardo Scamarcio). A disputarsi il titolo di "figlio unico" sono gli ultimi due: il piccolo Accio è un po' Rosso Malpelo, scontroso, attaccabrighe, irriducibile a qualsiasi controllo, sia familiare che religioso (prova la strada del seminario) e poi politico; il maggiore Manrico è bello e carismatico, sciupafemmine e impegnato a sinistra. E' questo il tableau vivant su cui apre Mio fratello è figlio unico, diretto da Daniele Luchetti e tratto - molto liberamente, come vedremo... - dal romanzo Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi. A sceneggiare con lo stesso Luchetti la premiata coppia di scrivani Stefano Rulli e Sandro Petraglia, reduci dalla palestra de La meglio gioventù: stessi posti dell'anima, stesse ore antagoniste di Mio fratello è figlio unico. Ricostruzione architettonicamente ineccepibile, meno convincente sotto il profilo socio-politico: da qui la querelle con Pennacchi, che si è sentito tradito per "la banalizzazione del passaggio di Accio, da destra a sinistra: il fascista è presentato ancora come un mostro, mentre il compagno ha sempre ragione", accusando i tre (Luchetti, Rulli e Petraglia) di "aver girato La meglio gioventù 2". Al massimo, diremmo, "la meglio famiglia", protagonista assoluta del film a scapito del côté politico. E' comunque l'unica debolezza di un film che per il resto funziona e convince, dichiaratamente popolare, con echi drammaturgici da Romanzo criminale e di formazione.

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