Lynch/Oz, o dell’influenza del Mago di Oz sul maestro di Missoula - e il cinema tutto. Alla XVII Festa del cinema di Roma, il documentario di Alexandre O. Philippe – prossimamente nelle nostre sale con Wanted, in America il 2 dicembre – ha l’ardire di indagare se non nell’inconscio almeno nel cinema di Lynch, provando a carpire assonanze e simmetrie, eredità e ossessioni intorno, ma non solo, al celeberrimo film di Victor Fleming con Judy Garland, archetipo e fucina, sorgente e alveo di autori ed epigoni, copie difformi e variazioni inesauribili.

Lo svizzero Philippe non lo scopriamo oggi, ha fatto tra gli altri Memory: The Origins of Alien, The People vs George Lucas e il bel 78/52: Hitchcock’s Shower Scene su Psycho, qui chiede a critici e registi - Amy Nicholson, Rodney Ascher, John Waters, Karyn Kusama, Justin Benson, Aaron Moorhead e David Lowery – di infilare penne e camere nel corpus lynchano e saggiarne la matrice demiurgica di Oz.

Presentato in anteprima al Tribeca Festival, il suo ultimo lavoro estrae, ma il rischio centrifuga è sensibile, il binomio eponimo da Cuore selvaggio e gli altri titoli di Lynch, nonché lo riflette, compara e riverbera in una teoria di film altrui, da Star Wars a Fuori orario, con una certa attitudine accademica, una certa tensione, più che vocazione, ex cathedra. Il sogno e la favola, la visionarietà e il kitsch, il gioco di specchi informa la singolar tenzone, gli analisti passano in rassegna luoghi e devozioni per capitoli giustapposti, trovando scarpette scarlatte e sipari di Blue Velvet e Twin Peaks, la ricorrenza di Dorothy (Valens) nel primo film e Over the Rainbow dalla tromba dello stesso Lynch.

Altri mondi possibili, la Malvagia Strega dell'Ovest o il Grande e Potente Oz, l’incubo e l’innocenza, il rimando quale motore simbolico. Nicholson cattura il suono del vento – un canto, in realtà – nell’incipit di Oz e lo paragona a quello di Eraserhead; Kusama si esprime sull’architettura multionirica di Mulholland Drive e sulla detection che autore e classico spartiscono; Waters, che di kitsch, e di camp, se ne intende, isola l’inesauribile gradimento di generazioni di piccini per il classico del 1939.

Ma tutti questi dotti e sapienti, pur minuziosi e acuti che siano, non esaltano la tesi di Philippe, ovvero la liaison tra questo regista e quell’altro film. Relazione, ci spieghiamo, che non è peregrina, anzi, effettiva, compiuta e longeva – lo dice lo stesso Lynch – ma non così nascosta e non così sepolta, nel tempo e nell’ermeneutica, da giustificare siffatta (ri)scoperta. Dell’acqua calda? L’avete detto voi, ma sicuramente il documentario è più interessante quando parla di Oz o quando parla di differenti autori e diverse opere anziché di Lynch, che invero prende in esame con didascalismo impiegatizio e osservanza nerd, ossia senza discriminare tra film riusciti e meno né tra occorrenze rivelatorie e pletoriche suggestioni.

Il pericolo è quello della sovrainterpretazione, della speculazione senza confini, dell’ozzizzazione in servizio permanente ed effettivo, vale a dire della banalizzazione del rapporto, dell’iperbolica estensione di Lynch/Oz allo scibile cinematografico, se non tout court.

Insomma, la montagna incantata di riferimenti, simmetrie e riflessioni partorisce un topolino nerdacchione, che dandosi un tono posticcio tradisce il precipitato autentico: la supercazzola. Over the Rainbow come se fosse antani.