Presentimenti onirici, morti ed espiazioni in vita. Famiglie falcidiate dall’amianto. L’elaborazione del lutto e la giustizia mancata. Rapporti da ricucire o da strappare: padri e figli, madri e figlie, vecchi amanti, vittime e carnefici.

È il microcosmo che punteggiala la prima regia di Ivan Gregolet, dopo una gavetta tra corti e documentari. Un dramma di confine tra Italia e Slovenia. Premesse sociali, dallo sviluppo e scandaglio psicologico, familista, intimista.

Il cantiere navale di Monfalcone come epicentro della mattanza. C’è chi costruendo navi da crociera ha respirato amianto ogni giorno, e ora ci ha rimesso la vita. Come il marito di Angela (Valentina Carnelutti), professione infermiera e di Elena (Rossana Mortara), sua migliore amica che presto, lei stessa, comincia ad ammalarsi.

Angela, bersagliata dalla morte, assiste Elena, e cerca di ricucire il rapporto logoro con la figlia Daria (Livia Rossi), fin quando s’imbatte in Francesco (recitazione tutta occhi e mugugni per Branko Zavrsan), l’”assassino”. Il proprietario della mortifera ditta navale. L’uomo senza colpa, ora ammutolito, allettato da un ictus in terapia intensiva.

L’onta e la rabbia le infuriano ancora in petto, ma la donna, convinta dal figlio di lui, Enrico. nuotatore di successo fuggito dalle piscine romane, abbandona l’ospedale e si installa nella villa fronte mare per curare il nemico di famiglia. Francesco la riconosce. La sprezza e la desidera, a colpi di sguardi, mani malandrine e sospiri. Così, nonostante il tormento di Angela, un’antica, muta tensione erotica, riprende a serpeggiare tra i due.

La sete di vendetta della donna, allora, si incaglia presto in questa ragnatela di sguardi taglienti, di corpo a corpo fisico, di pura narratività visiva; è qui che il film gioca le sue carte migliori, lasciando emergere e decantare il non detto, il rimosso, la virulenza del rancore in squarci da cinema muto, commentati e valorizzati da un intonato tessuto sonoro (Luca Ciut).

Ma sul lungo periodo, l’impressione è che gli alambicchi e i dettagli estetico-formali della regia – Premio Ettore Scola al Bif&st 2023 – ostacolino più che favoriscano la fluidità e la pienezza narrativa. Troppi gli snodi abbozzati ed elisi, troppe le zone d’ombra dei personaggi rimaste tali, troppe le scene in cui forma (pur pregevole) e contenuto si rincorrono, si accavallano, si accapiglino, si confondono senza trovare alchimia.

Ci si metta, poi, che i dialoghi così scarnificati e accettati (altro marchio registico ben riconoscibile), in fondo congelano il semenzaio di temi che la scrittura (sempre Gregolet) sparge sul limo della denuncia sociale: il senso di colpa, la pena e la vendetta, la necessità di perdono e quella di redenzione, la nostalgia per un passato luminoso, la menzogna (colposa) e l’impulso a espiarla fino alle estreme conseguenze.

Un film, dunque, che rimane a metà del guado, cercando una sua identità senza trovarla. Tutto posto sotto il segno del lutto, rannicchiato in sé stesso, con qualche sprazzo lirico – il ballo in una terrazza sul mare -, eppure dal contesto sociale rarefatto, e compiaciuto della sua impalcatura visiva.

Gregolet prova a rovistare a due mani nella psiche delle sue creature per abbandonarsi allo scandaglio intimista, allo psicologismo approfondito, al retroscenismo alluso, ma disperde cause e contesto delle azioni. Sui titoli di coda, così, rimane il presentimento di una denuncia appena sussurrata, anche con le giuste parole, ma non con il necessario coraggio.