London Boulevard è la dimostrazione di quanto sia difficile liberarsi dal copione che ci è stato assegnato. Non ci riesce l'ex galeotto Mitchel (Colin Farrell) che, una volta uscito di prigione, prova a rifarsi una vita trovando lavoro come factotum per un'attrice giovane, carina e annoiata (Keira Knightley), e finisce coinvolto nei sordidi piani di un boss della mala (Ray Winstone). Segnato è il destino di Charlotte - l'attrice di cui sopra - che scommette sull'amore capace di tirarla fuori dalle sue prigioni (della paura, della notorietà) per ritrovarsi più sola e ingabbiata di prima. Da ultimo, fallisce anche William Monahan, lo sceneggiatore da Oscar (The Departed) che si è riciclato regista, convinto che penna e macchina da presa scrivano allo stesso modo ma con inchiostro diverso.
Un equivoco di cui é indelebilmente macchiato il film, dove la sana follia del soggetto - tratto dal romanzo di Ken Bruen - è diventata guazzabuglio narrativo e poetico squilibrio. Il sincretismo sulla carta un pasticcio di immagini. Come se l'ossessione di Monahan per affrancarsi dal genere, finisse per incatenarlo a una "originalità a tutti costi", più confusa che ispirata. Una storia di criminali da quartiere che è anche una istantanea dello showbiz; un noir virato in rosa, di un americano di passaggio a Londra, che è fatale come il dito nella presa di corrente. In modo ottuso.
Una metropoli scontatamente swinging e vagamente sordida, in cui tutto si mischia: i magici anni sessanta (con le canzoni dei Yardbirds e dei Rolling Stones, dei Beatles e dei Box Tops) e il kitsch contemporaneo, arte e malavita, paparazzi e cecchini, vanto e squallore. Una città soffice come un bignè e malata come un'opera di Tarantino, spaccata tra le sue parti, incoerente. Come il film, che è incapace di mettere ordine alle sue digressioni. Contorto nello stile, monocorde nei caratteri.
Dietro ogni personaggio ancora una maschera, un ruolo fissato per sempre: è la faccia degli attori. E non si salva nemmeno quella.