La vita e la morte: il cinema. E' primordiale l'equazione che è valsa al thailandese Apichatpong Weerasethakul la Palma d'Oro, perché il suo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti è la manifestazione più semplice, immediata e sincera di quanto, sulla scorta di Bazin, sosteneva Pasolini, osservando “come la morte operi una rapida sintesi della vita passata, e la luce retroattiva che essa rimanda su tale vita ne trasceglie i punti essenziali, facendone degli atti mitici o morali fuori del tempo. […] E' dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso. […] La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita”. Non sappiamo se Weerasethakul conosca PPP, di certo lo farà in un'altra vita: da Tropical Malady a questo Zio, il senso del suo cinema sta tutto in questa combinazione di arte-vita poco decadente e molto cinematografica, con la morte avvertita quale necessità non di reificazione ma di apertura ermeneutica, approdo memoriale, taglia e cuci presente al futuro del passato che non passa.
A corroborare questa trasmigrazione di senso e di sensi sono le piccole cose del quotidiano, infettato di altro (il politico, il macro, il pubblico) e abbellito dall'amore a grado zero, quello dell'immaginazione impossibile che trasfigura il reale: chissà che proprio la scena d'amore tra un pesce gatto e una brutta principessa non abbia fatto pendere la Palma verso la giungla thailandese, complice il presidente di giuria Tim “Big Fish” Burton. Nel concorso piatto di Cannes 63, Weereccetera ha avuto più di qualcosa da dire, mostrare e affascinare: la sua camera esplora miti animisti e reincarnazioni variabili, circoscrive di politica antimilitarista la Thailandia nordorientale, fa della settima l'arte al tornasole della realtà nascosta, oscura, comunque sacrificabile, non troppo vicina né troppo lontana. Affezionato o meno, a morire è uno zio, non uno sconosciuto né un genitore: parente “relativo” e spia assoluta della giusta distanza dall'oggetto che Weerasethakul si sforza di mantenere, raffreddando l'empatia, sfrangiandola nei brandelli di una narrazione non asservita.
Più o meno, al netto di digressioni, inserzioni, divagazioni, la storia è quella di un uomo di mezza età dializzato e morente, che viene visitato da due fantasmi: la moglie morta da tempo, il figlio scomparso da parecchio che ritorna quale scimmione dagli occhi rossi. Non mancano battute cult, quali "E' mio figlio" - "Sì, ma è una scimmia", "Il Paradiso è sopravvalutato", "Muoio perché ho ucciso troppi comunisti", soprattutto non manca una fede genuina e immaginifica nella fusione panica di questo e altri mondi, a partire da quello animale. Non bastasse, la tavolozza ha colori per la passione e la compassione, la gioia e la sofferenza, la disabilità e la malattia, sciolti nell'ironia bucolica, nei sorrisi rurali, nel cinema che sa osare: costi quel che costi, ma con assoluta gratuità. Perché il procedimento che fa vivo il cinema Weerasethakul è quello che non terrà in vita il suo Zio: la dialisi, il trattamento sostitutivo della funzione vitale quando la vita è “sostituita” dal cinema. Dal grande cinema.