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Claes Bang in Lo sconosciuto del Grande Arco
Nel 1982, François Mitterrand lanciò un grande concorso di architettura per la costruzione di un edificio emblematico nel cuore del quartiere finanziario di La Défense. A vincere, a sorpresa, è Johan Otto von Spreckelsen, un architetto danese ignoto in Francia, nel cui progetto c’è una forte stilizzazione geometrica e una purezza espressiva molto apprezzata da Mitterrand, il carismatico presidente che vedeva in quel progetto così ambizioso l’evidente manifestazione del suo disegno politico pieno di speranza e ottimismo.
Ne venne fuori, dopo anni di lavoro, il Grande Arche de la Fraternité (noto anche come l’Arche de la Défense o il Grande Arche), un moderno trilite bianco ricavato da un cubo svuotato al suo interno, un monumento apparentemente minimalista che ridefinisce concettualmente lo spazio nel quale si staglia (un’apertura sulla città nell’asse del Louvre e dell’Arco di Trionfo) e si impone quale simbolo di pace, vittoria, fratellanza. Lo sconosciuto del Grande Arco è lui, Spreckelsen, uno straniero chiamato a guidare il più grande cantiere dell’epoca nella nazione più sciovinista d’Europa, al crocevia tra sogno e realtà, ideali e politica, creazione e burocrazia.


Michael Fau e Claes Bang in Lo sconosciuto del Grande Arco
A partire dal libro di La Grande Arche di Laurence Cosse, Stephane Demoustier costruisce (è il caso di dirlo) un film che, come l’Arco in questione, incornicia un momento storico con una certa nostalgia, ma riesce a inquadrare ragioni e sentimenti dell’architettura come teoria e pratica del recepire, plasmare e interpretare i sogni e i bisogni di una collettività.
Ambientato in una stagione di transizione, in cui la fiducia per il futuro e l’orgoglio nazionale si avviano a essere contaminati – se non addirittura corrotti – dal capitalismo e dal pragmatismo, è il ritratto di un uomo piombato da lontano che non è dominato o tormentato dal titanismo dei suoi colleghi cinematografici più celebri (La fonte meravigliosa e Megalopolis), ma che, proprio come la sua opera faticosamente messa in piedi, svetta in una folla di funzionari e politicanti rappresentando fisicamente un distacco che è anche spirituale.


Xavier Dolan in Lo sconosciuto del Grande Arco
Un corpo divergente, quello dell’ottimo Claes Bang, così stilizzato, appunto, in un vestito sempre uguale e nei sandali che evidenziano una differenza rispetto agli altri, e uno sguardo spaesato perché in difficoltà con una lingua che non padroneggia, tant’è che nelle cave di Carrara che sembra trovare una pace interiore, lontano dai fraintendimenti e dalle discussioni. Ed è evidente l’empatia – anzi: la condivisione etica, l’adesione umana, il precipitato emotivo – di Demoustier nell’avvicinarsi a una figura che converge con quella del regista.
In bilico tra commedia e dramma, solennità e ironia, geometria e libertà, con una malinconia che deflagra quando scopriamo il triste destino di un creatore privato della propria creazione, Lo sconosciuto del Grande Arco è un buon compromesso tra un racconto di raffinatezza teorica (tutto sommato parliamo di un cantiere, sostanzialmente è come se stessimo sul set di un film), una messinscena elegante, una produzione “ricca” (nel cast Sidse Babett Knudsen nel ruolo fittizio della moglie di Spreckelsen; Xavier Dolan con un personaggio ispirato a vari funzionari pubblici; Swann Arlaud come Paul Andreu, architetto specializzato in aeroporti; e Michel Fau che fa Mitterand).



