Un ingorgo stradale. François (Romain Duris) e suo figlio Émile (Paul Kircher) discutono del più e del meno. All’improvviso da un’ambulanza incolonnata riesce a fuggire una strana creatura, un uomo con artigli e possenti ali aquiline. 

Capiremo poco dopo che la nostro sorpresa non è la stessa dei due protagonisti: la mutazione uomo-animale è già in corso da un paio d’anni e anche Lana, la moglie di François, ne sta pagando le conseguenze.

Thomas Cailley apre Un Certain Regard di Cannes 76 con Le règne animal, film che senza mai citarlo apertamente (in realtà non lo fa neanche il regista nelle scarne note di regia presenti sul sito del Festival) ragiona giocoforza con il recente periodo pandemico, e lo fa attraverso un racconto metaforico che a seconda delle circostanze assume i connotati del coming of age, del rapporto padre-figlio, della distopia fantasy, chi più ne ha più ne metta.

Le istituzioni si rapportano a questa “malattia” sconosciuta cercando di studiare i soggetti che ne sono affetti, cercando di “custodirli” all’interno di centri specializzati. Ma cosa potrebbe accadere se durante un trasferimento il camion che li trasporta ha un incidente e queste “creature” ritrovassero la libertà all’interno di una foresta?

Il film funziona a fasi alterne, attinge a piene mani dal filone teen+diversity quando il giovane protagonista, l’ormai lanciatissimo Paul Kircher, cerca in tutti i modi di nascondere l’inizio della sua mutazione al cospetto dei nuovi amici di scuola, con il papà Romain Duris (sempre bravo) deciso ad ogni costo di ritrovare la moglie nascosta in quella selva. 

Suggestivo nella restituzione di questo vario campionario di mutanti, che spuntano fuori di tanto in tanto, ovviamente braccati dalla gente del luogo e dalla polizia (il sergente è Adèle Exarchopoulos, che finirà per stringere una tacita amicizia con François), Le règne animal – che segna il ritorno di Cailley alla regia di un lungometraggio dopo l’apprezzato esordio con The Fighters – Addestramento di vita – non può non far pensare (almeno nelle premesse) alla serie Netflix Sweet Tooth, con la lodevole intenzione di costruire una “storia che parli dei mondi che vogliamo lasciare in eredità, di quelli che ereditiamo, che distruggiamo, o che forse devono ancora essere inventati”. Il film ci riesce in parte, con qualche lungaggine di troppo (130’ si sentono) e con il primo serio candidato al Palm Dog di quest’anno, Albert, il bellissimo pastore australiano dei due protagonisti.