Le bombe e i vinili. La guerra e il mare. Il regime e l’identità. Il vecchio e nuovo. Gioventù e vecchiaia. Il cinema che fu e quello che sarà. 

Dopo quasi sessant’anni di clandestinità, Le marghertine censurate di Vera Chytilová possono scorrazzare liberamente nelle sale italiane.

Irriverenti, indolenti, briose e irrispettose. Capricciose e trasgressive. Due donne. Due mine vaganti in una Nazione asfissiata dalla dittatura all’alba della rivoluzione del 1968. 

Un caschetto biondo e una nera chioma fluente. Abitini da Nouvelle Vague e trucco pesante. Un solo nome: Maria. Più che personaggi prismastici, con motivazioni, desideri e obiettivi riconoscibili, infatti, sono figurine allegoriche, marionette esemplari che Chytilová sballottola da una peripezia all’altra per bersagliare il sessismo e il conformismo dilagante nella Cortina di ferro.

Giovinezza contro omologazione. Inquietudine contro consumismo. Grettezza contro libertà. La naturalità del sesso contro la brutalità della repressione centralizzata.

Le due Marie (Jitka Cerhová e Ivana Karbandova) fanno a pugni con una società solo materialistica, chiusa nel vicolo cieco di un produttivismo standardizzato: da qui le peripezie anarcoidi, le fughe in avanti tra i lavoratori e i vecchi bavosi, i night club e i saloni agghindati a festa. Vagano stralunate e irriverenti, si coalizzano e rifiutano amore, cantano, si ingozzano – ed è subito La grande abbuffata – , bevono, sperperano, bruciano, disprezzano. Tutto per esorcizzare quel senso di tragedia perpetua, quella nebbia del pensiero critico, quel presagio di paralisi, di tedio mortifero che pervade il fuori, l’altrove, la società socialista che si preannuncia oltre la camera da letto.

Chytilová capta in anticipo l’impossibilità di redenzione di un Paese in catalessi, soggiogato (e poi represso) dall’URSS. E lo schiaffeggia, lo risveglia a colpi di innovazioni stilistiche, e modernità di sguardo.

Provocazione, exercices de style e rifiuto del cinema classico. Vertice dadaista, surreale, tonitruante della Nová vlna cecoslovacca, Le margheritine, rinnegando trama e logicità del racconto, è prima di tutto una riflessione sul cinema, sulla cascata di nuovi sensi che un mondo nuovo riesce ad assegnare a immagini nuove. Chytilová fa saltare in aria i ponti della ragione logica allestendo uno sventolio sbalordente di formati, stili, generi, cromatismi (il bianco e nero, il colore, il seppia, tutti e tre insieme, e tutti e tre tra mille altri), di svolazzi alogici, di cortocircuiti tra immagine e suono, tra senso e segno linguistico.

Le margheritine
Le margheritine
Le margheritine

Regia dell’artificio, dunque, che lega inconscio e satira, documento sociale e romanzo generazionale, cinema muto e realismo in un unicum torrenziale e irripetibile, dove il gusto figurativo lucida i più fulgidi casi di non narratività, di iterazione dell’identico – le due che si ingozzano a spese dei vecchi e li abbandonano sul treno-, di distruzione della logica lineare degli eventi.

Un pamphlet antibellico (sì, è anche questo, sin dai titoli di testa) tutto al femminile, che nella sua disperata vitalità mostra sempre un nucleo teorico e un sottotesto politico, un pungolo di rinnovamento, una smania nascosta di rivoluzione, di polemica sussurrata a denti stretti, ma non per questo meno dirompente.

Un film folle e traboccante, percorso da un humour spiazzante verso sé stesso, verso le sue protagoniste, verso il regime, verso il tempo e il cinema che abitano. Così, ecco in filigrana l’amore per i surrealisti; una parodia intellettuale del primo (ammesso che ci sia) Godard, e il recupero di quella recitazione antinaturalistica, di quella spiritosaggine di maniera, di quel no-sense canzonatorio che ci riporta tra le braccia di Chaplin, Keaton e tutti gli aedi della commedia slapstick.

Finanziato con soldi statali, bandito dal partito comunista, costò la libertà alla sua creatrice: se Milos Forman all’epoca fuggì in America, Chytilová potè risedersi dietro la macchia da presa solo nel 1975. 

Cinquantasette anni dopo si lascia riscoprire come un canto d’amore disperato verso quella generazione smarrita e vitale che sognò e visse un’altra rivoluzione nella rivoluzione, un altro cinema nel cinema.