Dentro la complessa e variegata area del cosiddetto “cinema del reale”, dove documentario e finzione si dilatano e si diluiscono, si annullano e si esaltano, trova spazio anzi si fa spazio La timidezza delle chiome, passato a Venezia nell’ambito delle Giornate degli Autori. E si fanno spazio i suoi protagonisti, che sono il film e la materia di cui è fatto questo lavoro di Valentina Bertani.

Si parte dal coming of age per eccellenza (la fine della scuola, la collocazione nel mondo fuori, la ricerca di una voce), si parla con il lessico famigliare della borghesia ebraica romana, si approda a un metodo che fa dell’osservazione lo strumento per la comprensione, dell’empatia la misura di un distacco essenziale per eludere la retorica.

Protagonisti, infatti, sono Benjamin e Joshua Israel, cioè Benji e Josh, due gemelli omozigoti che a vent’anni vogliono immaginare un futuro all’altezza dei loro sogni, ma si sentono esclusi dall’orizzonte delle occasioni perché affetti da disabilità intellettiva. Però i ragazzi non hanno alcuna intenzione di tirarsi indietro, si schiantano contro i limiti imposti da una società inadatta alle loro esigenze e si lanciano l’uno nel primo tentativo di far sesso e l’altro nell’ipotesi di un amore forse impossibile.

La timidezza delle chiome
La timidezza delle chiome
La timidezza delle chiome

Seguendo un momento decisivo nel percorso formativo di due gemelli cresciuti in simbiosi, Bertani mette al centro la loro necessità di emanciparsi per poter crescere davvero. E il misterioso e affascinante titolo si riferisce proprio a quegli alberi che, cresciuti parallelamente, a un certo punto si distaccano per non farsi ombra a vicenda (per una volta celebriamo anche la bellezza della locandina che trasfigura allegoricamente questo tema, rappresentando i protagonisti con diverse angolazioni, sfruttando anche le folte capigliature e i profili dinoccolati).

Cinque anni di lavoro, mentre mutava il mondo attorno ai fratelli e i loro paesaggi interiori, che testimoniano anche l’evoluzione della forma “documentario”, espressione di riempita di nuovo senso e sempre meno legata alla restituzione secondo una comodità didascalica. Bertani riplasma il film sulle possibilità dei suoi eroi, ne rivela le paure più esposte e i timori meno scontati, si modula sul ritmo irregolare del loro muoversi diversamente dagli altri, elude sapientemente le secche dell’operazione patetica.

Perché la disabilità non cannibalizza la storia, casomai è un dato assodato da subito, e il vittimismo cozza con il carattere fiero e euforico dei ragazzi. Un film altro, non facile eppure semplicissimo, così schietto e libero come i suoi protagonisti.