Il più incredibile dei viaggi. La più inimmaginabile fra le traversate, affrontata sfidando il freddo e la fame, in nome della sopravvivenza della specie: abbandonando la parte settentrionale dell'Antartico - dove può nuotare e cibarsi senza difficoltà - il Pinguino Imperatore intraprende questo cammino estenuante, battendo infiniti deserti ghiacciati, per raggiungere l'estremità meridionale del continente dove, grazie ad una banchisa più resistente, può dare inizio alle "danze riproduttive". L'accoppiamento, la cova (operata dal maschio), il cammino a ritroso effettuato dalla femmina per andarsi a sfamare e portare il cibo ai prossimi nascituri, la comparsa del pulcino e di nuovo - questa volta il maschio - in viaggio alla ricerca di viveri. Per poi ritornare, ricongiungersi con il piccolo pinguino ormai in grado di camminare e ripartire verso il mare. Questa, in sintesi, l'epopea raccontata ne La marcia dei pinguini, affascinante opera del francese Luc Jacquet, già capace di sbaragliare qualsiasi concorrenza ai botteghini d'oltralpe e statunitensi. Indubbiamente prezioso, il lavoro di Jacquet (che ha impiegato più di un anno per portare a termine le riprese, seguendo passo passo il "ciclo" dei pinguini) sembra però soffrire, e non poco, per un'esagerazione formale alle lunghe controproducente: tutto il fascino e la poesia dati dall'aspetto "brutalmente" documentaristico vengono affievoliti da una scelta post-produttiva non particolarmente felice, interamente votata a rincorrere facili coinvolgimenti e "sentimentalismi" al limite del ricattatorio, pomposamente sottolineati da musiche eccessivamente enfatiche e – ma questo è un limite ascrivibile solamente all'edizione prevista per le sale italiane – dal commento della voce fuori campo affidato a Fiorello. Showman bravo e simpatico quanto si vuole, ma in questo caso davvero "fuori parte"…