“Esistono cinque tipi di attrici” sosteneva Mark Twain. “Quelle cattive, quelle passabili, quelle buone, quelle grandi. E poi c’è Sarah Bernhardt”. Dopo averla vista interpretare La signora delle camelie a Torino nel 1882, anche Eleonora Duse (all’epoca poco più che ventenne e non ancora acerrima rivale della diva francese) ammise che “nessuno singhiozza, nessuno si dispera, nessuno muore così bene come la Bernhardt”.

Ed è proprio la teatrale agonia della Dame aux camélias ad aprire La divina di Francia – Sarah Bernhardt, il film con cui Guillaume Nicloux punta a rievocare l’aura della “Voix d’or” (cit. Victor Hugo), incrociando tre periodi chiave della sua esistenza, ovvero il 1915 (anno in cui è costretta all’amputazione di una gamba), il 1896 (l’apice della carriera, dove i festeggiamenti per il suo personale giubileo si intrecciano con le tensioni dell’Affare Dreyfus) e il 1886 (il grande balzo verso la fama globale). Sebbene la pellicola sia uscita in Francia l’anno scorso, la vicinanza distributiva e tematica con Duse di Pietro Marcello rende inevitabile il paragone fra le due opere.

Entrambe si presentano come “non biopic” (optando per una struttura non lineare), entrambe utilizzano materiali d’archivio per creare una contestualizzazione storico-visiva ed entrambe puntano su una protagonista non tanto somigliante al personaggio quanto adatta a incarnarne lo spirito e l’approccio esistenziale. Da qui la scelta di Sandrine Kiberlain, che con la Divina Sarah ha in comune giusto la magrezza e il naso importante, ma sa trasmetterne l’esuberanza inesauribile, il gusto per la teatralità, il narcisismo arrogante e la frivolezza trasgressiva.

La divina di Francia – Sarah Bernhardt
La divina di Francia – Sarah Bernhardt

La divina di Francia – Sarah Bernhardt

Tuttavia, laddove Marcello insegue la vertigine assoluta della vita, della morte e dell’arte, Nicloux si accomoda senza guizzi fra arredi opulenti e salotti mondani, quasi a voler documentare un lungo backstage imbevuto di stravaganza e decadenza. Lascia in secondo piano la grande tragedienne che voleva trasformare la propria vita in un’opera d’arte e celebra invece la diva come self made artist, imprenditrice di successo, dispensatrice di aforismi recitativi, paladina di giuste cause, influencer ante litteram (che ama il lusso, detta tendenza, colleziona animali esotici e si circonda degli artisti più cool della scena parigina) e, soprattutto, donna disperatamente innamorata.

Esatto perché, nonostante la totale libertà sessuale (per gli hater della Belle Époque, ninfomania) e le decine di relazioni con uomini e donne, la sceneggiatura di Nathalie Leuthreau è costruita sull’assunto (piuttosto arbitrario) che l’attrice abbia avuto un solo, grande amore (il collega Lucien Guitry/Laurent Lafitte) e che desideri raccontarne la storia al di lui figlio Sacha (Arthur Mazet).

La divina di Francia – Sarah Bernhardt
La divina di Francia – Sarah Bernhardt

La divina di Francia – Sarah Bernhardt

Se nemmeno una figura debordante ed eccessiva come Sarah Bernhardt (musa di Alphonse Mucha, Oscar Wilde, Marcel Proust, Victorien Sardou ed Edmond Rostand, che la considerava “reine de l’attitude et princesse du geste”) può essere raccontata senza sottostare al paradigma della love story melodrammatica in cui l’eroina ribelle si strugge e il maschio fugge (preferendole una compagna più giovane e docile), forse qualche domanda sui costrutti narrativi è meglio farsela.

Così come, per quanto il cinema non abbia l’obbligo di essere autentico (parola di Nicloux), vale la pena di chiedersi se colei per cui Jean Cocteau coniò il termine “mostro sacro” (e che Sigmund Freud lodava per la capacità di passare “da donna serpente a femmina efebica”) meritasse di finire imbrigliata nei vincoli estetici e tematici di un period drama ben attendo a non trascendere mai i limiti della visione più conciliante.