Certo, sul tema aveva già detto tutto nove anni prima della pandemia (Contagion), ma ovviamente anche stavolta toccava aspettare Steven Soderbergh per un film così centrato e trasparente sul nostro tempo, dopo vari tentativi ora estemporanei (Malcolm & Marie), ora mediocri (Locked Down), ora imbarazzanti (Songbird, Lockdown all’italiana). Kimi è stato distribuito su HBO Max circa un anno fa, ma in Italia è arrivato, con placida indifferenza, solo nelle ultime settimane (a pagamento su Apple TV, Prime Video, Chili con sottotitolo da thriller di seconda lega: Qualcuno in ascolto).

Da maestro qual è, con lo spirito avventuroso dei pionieri e lo sguardo lungo di chi crede nel cinema come chiave di lettura del reale e arma di guerriglia per interpretarlo, Soderbergh (che nel frattempo ha girato il terzo Magic Mike, The Last Dance) fa di necessità virtù, coglie nell’ostacolo l’occasione per rilanciare, sceglie il genere per affrontare, ancora una volta, un discorso teorico: sarà una banalità, ma ogni film di Soderbergh è sempre un film sul cinema.

Non è un capolavoro, Kimi, e non è nemmeno il titolo più solido e inattaccabile del regista. Ma, nonostante le sbavature, ad avercene di autori – e il termine non è casuale: Soderbergh ha una visione personale e il controllo totale della macchina, essendo peraltro responsabile anche della fotografia e del montaggio sotto pseudonimi – capaci di esaltarsi con i limiti, posizionare il presente all’altezza del classico, intercettare ansie e paure che traslitterano il personale nel collettivo.

Kimi è il nome del nuovo prodotto di un’azienda tecnologica, uno smart speaker che fa un uso controverso dei dati per migliorare l’algoritmo. Angela (Zoë Kravitz, sempre folgorante) è un’informatica in forza all’azienda, che lavora da casa sia per le restrizioni del Covid sia perché agorafobica dopo un’aggressione. Ascoltando una registrazione vocale scopre un crimine violento: pensa bene di avvertire i suoi capi, peccato che la situazione sia un po’ più complessa.

Kimi
Kimi

Kimi

Se non ci fosse di mezzo Soderbergh si potrebbe pensare a un thriller derivativo che tira dentro l’ansia claustrofobica e la paranoia de La conversazione, il pessimismo sulla società capitalistica di Perché un assassino, l’incedere angosciante e l’ambiguità della verità di Blow Out. Difficile non vedere dentro Kimi tutte queste suggestioni, anche perché Soderbergh viene da lì, dalla temperie newhollywoodiana del sovvertire le regole all’interno del sistema.

Ma il citazionismo di Soderbergh è talmente autonomo e consapevole da farsi liquido in un film che finge di essere un prodotto futile ed evanescente ed è in realtà un irrequieto e calcolatissimo thriller da camera, un aggiornamento di quel filone cyberpunk in voga negli anni Novanta, un esercizio di stile ma anche la testimonianza dell’urgenza di essere filmmaker oggi, un ragionamento sugli spazi (la casa come rifugio e trappola, le minacce in esterni) e sul sonoro (la voce metallica contro la voce umana) al di là della facilità metaforica e di una semplicità narrativa che a volte sfocia nella semplificazione.

Come in Unsane, lo strumento è al servizio del pensiero e il discorso sull’immagine è più raffinato di quanto si creda, la massima libertà d’azione si manifesta nella distorsione delle inquadrature e nelle angolazioni a piombo. Come in Effetti collaterali, l’atto politico si esprime mettendosi dalla parte delle persone contro il potere ingerente dell’industria, stavolta ancora più inquietante perché non sono i colossi farmaceutici ma quelli dell’informatica. Sono solo alcuni segni della capacità di formulare un discorso coerente con uno sguardo, sempre restio ad accontentare le aspettative degli studio, ancora lucido e appassionato.