Di redentori e traditori.

Il secondo lungometraggio di Shaka King – candidato a sei premi Oscar – ci riporta alla Chicago di fine anni sessanta, nel periodo a cavallo della morte di Martin Luther King (4 aprile 1968), per concentrarsi su un’altra figura chiave del movimento per i diritti civili neri, Fred Hampton, che a 20 anni, proprio nel ’68, divenne Presidente della sezione dell’Illinois del Partito delle Pantere Nere (BPP), guidando la lotta dell’organizzazione per la libertà, il potere dell’autodeterminazione e per porre fine alla brutalità della polizia e al massacro della gente di colore.

“Non pensiamo che il fuoco si combatta con il fuoco; per combattere il fuoco è meglio usare l’acqua. Non combatteremo il razzismo con il razzismo, lo combatteremo con la solidarietà. Non combatteremo il capitalismo con il capitalismo nero, ma lo combatteremo con il socialismo”.

Judas and the Black Messiah riporta allora a galla il pensiero e la parola del “rivoluzionario” Hampton, ucciso a soli 21 anni (il 4 dicembre 1969) per mano dell’FBI in seguito ad un’imboscata a dir poco ignobile.

Shaka King – anche autore del soggetto con Will Berson, Kenny Lucas e Keith Lucas – si serve agilmente anche di materiale di repertorio ma agisce con forza e buon esito per mescolare i registri del cinema di impegno civile con quelli più spiccatamente di genere.

Judas and the Black Messiah - © Glen Wilson - 2021 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved
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Judas and the Black Messiah - © Glen Wilson - 2021 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved

È qui che entra il ballo il Judas del titolo, William O’Neal, ladruncolo che per rubare qualche automobile si fingeva un agente dell’FBI e che poi, scherzo del destino, viene utilizzato proprio dal bureau (guidato da J. Edgar Hoover, qui incarnato da un Martin Sheen ai limiti dell’irriconoscibile) come infiltrato nei ranghi del BPP, affinché tracciasse i messaggi e i movimenti di Hampton dall’interno.

Prima di giungere così alla tragica fine di uno e alla successiva, più tardiva, fine dell’altro (O’Neal si suicidò a 40 anni, il 15 gennaio 1990, nello stesso giorno in cui venne presentata la serie documentario Eyes on the Prize 2, che conteneva l’unica intervista mai rilasciata in video da O’Neal, in cui ammetteva il suo coinvolgimento con Hampton e le Pantere nere), il film riesce a tenere vive e a far coesistere le molteplici anime che lo compongono.

Questo grazie alle straripanti performance dei suoi due co-protagonisti (Daniel Kaluuya – già premiato col Golden Globe – e LaKeith Stanfield, entrambi nominati all’Oscar nella categoria migliore attore non protagonista), ad uno score memorabile e al non semplice equilibrio tra impeto di natura morale e stilemi attrattivi verso il grande pubblico (l’impianto thriller-poliziesco, con sguardo rivolto al passato di un cinema glorioso, quello dei vari Friedkin e Siegel).

DANIEL KALUUYA e il regista  SHAKA KING sul set - © Glen Wilson - 2021 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved
DANIEL KALUUYA e il regista  SHAKA KING sul set - © Glen Wilson - 2021 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved
DANIEL KALUUYA e il regista SHAKA KING sul set - © Glen Wilson - 2021 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved
DANIEL KALUUYA e il regista SHAKA KING sul set - © Glen Wilson - 2021 Warner Bros. Entertainment Inc. All Rights Reserved

In un certo senso – anche per la tipologia della storia raccontata – sembra di trovarsi di fronte ad un’opera uguale e contraria al BlacKkKlansman di Spike Lee (senza la vena fortemente umoristica che lo contraddistingueva): lì la cosa giusta la faceva l’infiltrato, qui l’informatore è costretto invece a dividere la sua stessa natura, quella di un uomo che poco a poco impara a comprendere la portata di un messaggio “comunitario” contrapposto all’individualismo che continua però a giustificarne le azioni.

Ed è in quel solco, in quel senso di colpa mai spiattellato platealmente ma continuamente suggerito, che Judas and the Black Messiah riesce ad insinuarsi con forza dirompente.

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