Jean Claude Van Damme come non l'avete mai visto. L'eroe del cinema di serie Z - quello tutto muscoli, karate e insana violenza - è l'uomo fragile di una vita incasinata. 6 matrimoni, 3 processi, due condanne e una dipendenza più forte di quella dalle arti marziali, la cocaina. A questa cospicua dose di sfiga, il parigino Mabrouk El Mechri - nell'incredibile mockumentary presentato ieri al Festival di Roma - aggiunge anche un sequestro all'interno di un ufficio postale, dove l'attore viene preso in ostaggio da tre banditi sciroccati, mentre la polizia belga è convinta che il colpevole sia proprio lui. Spiazzante come pochi, JCVD (il titolo è l'acronimo nel nome d'arte dell'attore) è uno di quei film destinati a dividere la critica. Geniale nelle intenzioni, azzardato nella costruzione, complesso nei suoi risvolti, intrinsecamente sospetto. Talmente diretto e sincero da sembrare fasullo. Ma il punto di forza dell'operazione è proprio questo: decuplicare i livelli in cui finzione e reale si confondono, fino a non distinguersi più. L'uomo è il personaggio, la sua vita il film, e viceversa. La stessa docufiction trasgredisce la sua natura strutturandosi come un puzzle (vedi Tarantino), e svela intenzionalmente i suoi artifici quando dice la verità - pensiamo al toccante monologo in cui Van Damme, immerso in uno spazio teatralizzato, si confessa davanti alla macchina da presa -. Cinema "parassitario" per come usa e si fa usare dal suo protagonista: Van Damme non si nasconde, si espone in tutte le sue debolezze e si riabilita perché, con incredibile ironia (verso di sé e verso il suo mondo), riesce finalmente ad essere un attore proprio quando si limita a fare se stesso (paradossale anche questo, no?). Cinema d'avanguardia che sa abilmente mischiare alta e bassa cultura, Godard e l'action più becero. Per tutte queste ragioni cinema anche del dubbio radicale. Come dire "a voi la scelta": capolavoro o colossale furbata?