"Mentre giravo il film, non pensavo a una storia di tutti i giorni o a sfondo sociale. Per larga parte, il film intende soffermarsi sull'aspetto mitologico della vita umana. Questo è probabilmente quello chi io vorrei che lo spettatore percepisse vedendo il film". Con queste parole, Andrej Zvyagintsev ci presenta la sua opera prima Il ritorno, vincitore del Leone d'Oro di Venezia Sessanta. Segnato da una struttura narrativa apparentemente lineare, questo film accumula in sé una ricchezza di contenuti simbolici, di suggestioni, di indizi, di schegge di eternità, tutti ruotanti attorno a un unico corpo unificante che è quello del "mistero". Il plot è quello del ritorno, appunto, di un padre a casa, dopo essere inspiegabilmente scomparso per dodici anni. Ad accoglierlo c'è sua moglie e i suoi due figli adolescenti, Andrej e Ivan, che non l'hanno mai conosciuto. E' domenica. Il giorno dopo, il redivivo padre porta i due ragazzi a pesca su un lago per qualche giorno. Inizia, così, un viaggio che dovrebbe facilitare la conoscenza reciproca e colmare un vuoto di confidenza tra padre e figli. Ma i contrasti finiscono per prevalere sui punti d'incontro; soprattutto il figlio più piccolo, Ivan, è il più restio a sottomettersi a un'autorità troppo dura e per lui difficile da accettare. Durante uno scontro con il padre, Ivan fugge e si chiude in una torretta di legno. Il padre cerca di raggiungerlo dall'esterno per riappacificarsi con lui, ma accidentalmente cade e muore. I due fratelli non possono far altro che ricomporre il suo corpo e adagiarlo su una barca. La mattina seguente ' è il sabato successivo -, al loro risveglio, vedono la barca prendere il largo e inabissarsi nelle acque del lago. Potremmo certamente definire quest'opera come un tentativo di film"apocalittico", proprio nel senso etimologico della parola (apokalipsis, lo ricordiamo, in greco significa rivelazione, scoprimento, svelamento, sottrazione del mistero). E gli indizi, come dicevamo, in questo senso sono molti. In primo luogo, la scansione temporale di cui è composto il film: sette giorni, come quelli biblici della Creazione, che iniziano proprio il Dies Domini, la domenica, il giorno della Resurrezione; in questo giorno c'è il ritorno a casa, dove si vede il padre, prima dormire in un letto, inquadrato esattamente come il Cristo morto di Mantenga, poi, a tavola, spezzare il cibo con le mani e versare il vino in una inquadratura successiva, che ricorda altri riferimenti pittorici alla cena di Emmaus. Biblico è anche il numero dodici, che sono gli anni della sua assenza da casa. E ancora, il nome dei due figli, Andrea e Giovanni, che trovano la conferma dell'identità del proprio padre in una foto, conservata in una Bibbia illustrata, chiusa tra le pagine dove si raffigura il sacrificio di Isacco; e, ancora, gli stessi figli, che sono pescatori in un lago, e il venerdì, giorno in cui il padre muore. Infine il luogo stesso dove il film stesso è stato girato: il lago Ladoga, nella Russia settentrionale, ai confini con la Finlandia. In questo vastissimo specchio d'acqua c'è l'arcipelago di Valaan con le sue isole, centri di antica e profonda spiritualità, in cui vivono ancora oggi solo comunità di monaci ortodossi, non a caso denominato anche "l'Athos del Nord". Attraverso uno stile cinematografico asciutto, rigoroso ed essenziale,che non lascia spazio a ridondanze, o a tempi morti, segnato da una fotografia nitida e marcata, Zvyagintsev avvince lo spettatore proprio seguendo con coerenza la sua espressa volontà di inondare la sua opera con una serie infinita di interrogativi, mai risolti fino in fondo, ma solo accennati, i quali non possono non suscitare in chi vede il film domande, paragoni, similitudini di grande presa interiore. In questo modo è inevitabile chiedersi: il padre è il Padre? La sua pedagogia, incomprensibile per i figli adolescenti, ha un suo riscontro in un rapporto con una latens deitas: un Dio nascosto che chiede con urgenza all'uomo la sua collaborazione attiva per essere scoperto e amato? Il ritorno del padre tra i suoi e la loro iniziale titubanza non rimanda, forse, alla frase del Vangelo di Luca "Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo"? E l'inizio del film non potrebbe essere invece la sua fine? Sono tutti, questi, interrogativi carichi di innegabile fascino che il regista volutamente non risolve, lasciando lo spettatore alle prese con una visione densa di scoperte appena accennate, di rimandi continui, di offerte di letture stratificate, pregne di molteplici significati. Ed è proprio in questo non svelamento totale del mistero. L'autentica e vera forza di questo film. D'altra parte è lo stesso regista a ricordarci che"non si deve parlare di significati sacrali e importanti, perché, appena se ne parla, la magia e la sacralità evaporano".