Il 19enne Malik El Djebena (Tahar Rahim, bella scoperta) viene condannato a sei anni di prigione. E' giovane, analfabeta, spaurito, e dentro è peggio che fuori. Ma Malik è intelligente, e via via astuto. Dopo aver pagato dazio alla gang corsa regnante uccidendo un detenuto scomodo, progressivamente entra nelle grazie del “padre di famiglia” César Luciani (Niels Arestrup, imponente). Ma Malik non è tipo da accontentarsi…
Grand Prix della Giuria presieduta da Isabelle Huppert a Cannes e candidato all'Oscar per il miglior film straniero, Il profeta (Un prophete) di Jacques Audiard combina prison-movie, gangster-movie, noir e romanzo di formazione, prende qua e là con uniforme classe – Melville, Aldrich, Scorsese, Brecht (La ballata di Mackie Messer nel finale) – e riesce a (ri)scoprirsi originale, puntando sulla riflessione – e la digressione – e l'accelerazione, lo scavo psicologico e l'humus (a)sociale, per arrivare a una disamina puntuale e calibrata della violenza della repressione della violenza, ovvero il grado zero della reclusione coatta.
Un approdo ideologico che non sconfessa le ragioni dello spettacolo, né abdica al Leitmotiv autoriale di Audiard, che passando per Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore continua a inquadrare l'oppressione del singolo, avvertita prima nel corpo e poi nella mente.
Grazie alle poderose prove di protagonista e antagonista (Arestrup), Il profeta - la traduzione "determinativa" italiana è un grave errore... - si fa perdonare qualche lungaggine, qualche semplificazione razziale (tutti i mussulmani contro i corsi…) e una mancanza che altrove risulterebbe esiziale, perché il sistema carcerario della repressione è quasi in fuoricampo (seppur realisticamente evocativo), ovvero “delegato” ai corsi.
In breve, un ritratto d'autore in cornice di genere, che non esalta fino in fondo – sarebbe “immorale” -  la nascita di un capo(clan), ma ne risalta la bontà, la bontà che non c'è, consumata e invertita da quell'istinto di sopravvivenza che tutto può. E nulla concede.