L’avvio è fortissimo, con quella capacità di intercettare contraddizioni e inquietudini della contemporaneità che è quintessenza della commedia (italiana). Qualcosa che oggi è sempre meno frequente, escluso il caso del pur sovrastimato Perfetti sconosciuti, non a caso citato per mezzo di poster immaginario (tutto in casa: è un grande successo della Lotus, che produce, e di Medusa, che distribuisce su Prime Video).

Il “grande tema” di Il mio migliore dei mondi di Maccio Capatonda alias Marcello Macchia è l’immersione quotidiana nella tecnologia e la totale digitalizzazione della vita: Tinder per fare incontri “controllati” (plasmarsi in base ai profili degli utenti con cui usciamo), Alexa usata per accendere o spegnere qualcosa, lo spazzolino elettronico di ultima generazione, le notizie da scrollare al bagno per inerzia, i siti dove trovare tutte le sfumature del porno. Più che immerso nel suo tempo, Ennio Storto ne è schiavo: mette in pratica la “teoria del 40%”, cioè fare cose e frequentare persone che non ci piacciono completamente per non restare coinvolti, servendosi di tutte le informazioni che inseriamo sulle app alle quali siamo iscritte. Tutto sommato uno psicopatico, certamente meno innocuo del pur svalvolato fratello che, quando non sproloquia nel suo negozio di informatica (“Come si fa la rivoluzione? Ho nostalgia per la P2. E le molotov? Che fine hanno fatto?”: Pietro Sermonti al solito impareggiabile), spaccia in discoteca.

Tutto si rivoluziona quando, riparando il vecchio modem di una ragazza che si ostina a navigare in 56k, Ennio si sveglia in un universo parallelo, un 2023 alternativo dove il progresso tecnologico è fermo agli anni Novanta: per evitare il Millennium bug, un decreto governativo ha “congelato” la digitalizzazione, preservando cabine telefoniche e cellulari analogici, negozi di Blockbuster e auto senza sensori per il parcheggio. E di conseguenza – ma è un effetto collaterale “imprevisto” – la possibilità di conoscersi a cena e non via chat, l’immaginazione per darsi piacere da soli, la meditazione al bagno, perdersi per le strade senza navigatore.

Maccio Capatonda in Il migliore dei mondi (foto di Katia Zavaglia)
Maccio Capatonda in Il migliore dei mondi (foto di Katia Zavaglia)

Maccio Capatonda in Il migliore dei mondi (foto di Katia Zavaglia)

Ora, al di là del suo bizzarro svolgimento tra il comico e il distopico, Il migliore dei mondi soffre lo stiracchiamento di una storia ben incorniciata da un incipit efficace e una parte finale che non dimentica l’angoscia dietro la battuta ma in deficit d’ossigeno nella parte centrale. Maccio funziona soprattutto sullo sketch, sui feticci di un repertorio che funziona da usato sicuro, sulle sterzate tendenti all’assurdo (citiamo solo le analogie tra Silicon Valley e Puglia…), sulla chimica con Martina Gatti nel ruolo di una ragazza per cui varrebbe la pena viaggiare nel tempo se non fosse che, insomma, le cose si fanno in due.

Dove appare meno a fuoco, perfino timido laddove l’avremmo preferito spericolato come sa essere, è quando la faccenda si complica un po’ troppo al limite della paranoia (Black Mirror non è un’evocazione campata in aria) e nell’allegoria affiora un sottotesto moralista. Non è vero che Il migliore dei mondi è più ambizioso dei suoi film precedenti (anche perché in un certo senso il sottostimato Omicidio all’italiana era più urticante): è solo, che alla fine, ha uno sguardo poco storto.