Il pugile medaglia d'oro alle Olimpiadi di Mosca del 1980 e campione del mondo nel 1986, Patrizio Oliva, smette i panni di atleta e si cimenta come simpatico attore nel secondo episodio della trilogia che il regista Luciano Capponi sta costruendo sulla sua personale idea fantastica di aldilà. Su un'astronave organica in orbita vicino alla Terra, una multinazionale di alieni gestisce le anime dei trapassati e le smista per farle rinascere, dopo averle adeguatamente “educate”, a seconda della necessità. Il progetto crudele è quello dello sfruttamento, del controllo e della globalizzazione del nostro pianeta, anche se a spingere gli extraterrestri sembra essere un altro motivo: l'invidia per il senso dell'umorismo degli umani. Le anime vagano senza memoria per la tenuta, a metà tra un manicomio e una prigione distopica, dove subiscono il condizionamento degli alieni per reincarnarsi schiave di tutte le frustrazioni e le storture tipiche del nostro mondo contemporaneo. Ma a cambiare la situazione, dapprima in maniera impercettibile, poi sempre più poderosamente, sarà Gennaro Esposito, lo spirito di un umile netturbino napoletano morto di fame (ispirato al protagonista della poesia 'A livella di Totò) che conserva tutti i ricordi della sua vita passata. Con la sua semplicità, il suo candore e la sua ingenuità, e grazie all'aiuto di un flauto intagliato da un crocifisso di legno, sarà in grado di restituire un po' di memoria e di dignità alle povere anime smarrite, sovvertendo l'ordine angoscioso voluto dai dominatori.
Dopo Butterfly Zone, Capponi continua a proporre un'idea diversa di cinema, realizzando un film “indipendente” (ma non dai lacci della burocrazia italiana) in cui tutto il cast ha lavorato gratuitamente. L'immediata simpatia del protagonista, un uso sapiente e “lieve” della macchina da presa, il coraggio di portare avanti una “favola” mediterranea piena di ottime intenzioni (“il buon senso, il rispetto e l'onestà” che per il regista mancano al nostro mondo e nel film sono incarnati dal protagonista) non bastano a salvare l'opera da una rigidità di fondo che la rende poco digeribile. Le continue metafore, su tutte quella del crocifisso che diventa flauto (la parola e la carne di Dio che diventano musica di Dio) tolgono respiro alla trama, la recitazione “teatrale” rischia di sfociare nel caricaturale, la stereotipizzazione dei caratteri appiattisce i personaggi. “Non cedere ai compromessi delle clip, degli spot, della tv” come vorrebbe il regista non significa necessariamente essere brillanti, originali e capaci di portare al cinema l'"aria buona" evocata con nostalgia da Gennaro Esposito.