“Dentro l’imbottitura di un abito ci puoi nascondere qualsiasi cosa: segreti, monete, ricordi…”.

Paul Thomas Anderson si lascia alle spalle i neon lisergici della Los Angeles anni ‘70 di Vizio di forma e ritrova l’ago con cui tornare a imbastire le trame di un tessuto che, grazie ad un Filo nascosto, unisce Il petroliere e The Master a questa sua nuova opera.

Tornano in maniera preponderante, in questa Londra anni ’50 dove a muoversi è il rinomato stilista Reynolds Woodcock, i topoi più riconoscibili di PTA, su tutti la mania del controllo e l’assenza della figura materna. Due caratteristiche che muovevano il monumentale The Master e che, stavolta, segnano in maniera determinante l’esistenza del protagonista, interpretato da un Daniel Day-Lewis sontuoso, riemerso dai pozzi neri del Petroliere, ripulito e quasi “imbalsamato” in questa figura sempre alla ricerca della perfezione impossibile che, a quanto pare, segna anche il suo definitivo addio alle scene.

 

È al tempo stesso respingente e affabulatorio, Il filo nascosto, e – mai come in questa occasione – PTA guarda al cinema di Kubrick per risucchiarne tanto in termini di geometrie e atmosfere quanto in termini di ambiguità e sfumature.

Quasi interamente ambientato nella villa-atelier di Woodcock (personaggio vagamente ispirato al celebre couturier Charles James, egomaniaco risaputo), il film – che per la prima volta vede il regista californiano anche direttore della fotografia – è un’anomala love story incentrata sull’incontro del protagonista con la cameriera Alma (Vicky Krieps).

“Scapolo impenitente”, come si definisce da subito Woodcock, abituato ad una routine maniacale fatta di momenti – come la colazione – in cui ogni rumore fuori luogo potrebbe rovinargli il resto della giornata, figura centrale della moda britannica e abituato a “vestire” famiglie reali, star del cinema, ereditiere e debuttanti, condivide le giornate (e il lavoro) con sua sorella Cyril (l’austera, meravigliosa Lesley Manville), che gestisce il marchio di famiglia.

Il filo nascosto
Il filo nascosto
Il filo nascosto
Lesley Manville

L’arrivo di questa nuova donna – musa e amante – vorrebbe/dovrebbe essere gestito come in tutte le altre, precedenti situazioni. Ma ben presto, la vita di Woodcock fino a quel momento “cucita su misura”, controllata e pianificata, sarà stravolta.

Ed è qui che entra in gioco l’aspetto più intrigante e ambiguo del film: sì, perché ad Anderson interessa esplorare non tanto la trasformazione conseguente quel rapporto, ma piuttosto la determinazione della figura femminile nel non desistere mai, neanche di fronte alla più ovvia evidenza, nei confronti dell’oggetto del suo amore. Che riesce a fare completamente suo solamente in quei rari momenti in cui Reynolds perde il controllo di se stesso, quasi regredendo, per ritrovarsi inerme e indifeso.

Qual è l’ingrediente segreto capace di tenere insieme due persone? Quale quel filo nascosto capace di legare in modo così imprevedibile ciò che invece sembra destinato a non durare per sempre?

Il film di Paul Thomas Anderson rimane sospeso, sempre in bilico su questo crinale dove ci sembra di osservare i due personaggi principali in costante duello, e costruisce – anche grazie al meraviglioso lavoro di Jonny Greenwood (alla quinta colonna sonora per il regista), che si mescola e si sovrappone ai vari Fauré, Debussy, Brahms, Berlioz, oltre al Piano Trio No. 2 di Schubert (il primo movimento, quello che anticipa il ben più celebre “Andante con moto” di Barry Lyndon) – un altro indimenticabile film-modello.

Dove la creazione, la confezione, l’eleganza e il controllo si amalgamano con il retrogusto velenoso di un amore che, per alimentarsi e vivere, deve necessariamente scendere a patti con l’aberrazione e il dolore più profondi. Anche a costo della vita.

Candidato a 6 premi Oscar: miglior film, regia, attore protagonista (Day-Lewis), attrice non protagonista (Lesley Manville), colonna sonora e costumi.