Per brevità non ricapitoleremo la sterminata fortuna televisiva, teatrale, radiofonica, fumettistica, cinematografica del racconto giovanile (1887) di Oscar Wilde. È noto che dal dopoguerra Il fantasma di Canterville ha dimora fissa su grande e piccolo schermo (britannico e non solo). Si va dal film del 1944, con protagonista Luaghton imbevuto di strascichi bellici, alle varie, celebri riduzioni televisive de 1986 (Paul Bogart dirige Alyssa Milano e Jhon Gieuld), del 1996 e del 1997, fino al maquillage di Yann Samuell del 2016.

La coppia Burdon-Chandler si mette in questa scia, ossequiando al classico ma provando a piegarlo all’attualità. Non è più tempo (come lo era per Wilde) di discutere la “britannizzazione” etica e antropologica dei possidenti statunitensi; ora bisogna incoraggiare e dignificare le donne, frenando il ricorso fanatico alla Scienza con tutti gli echi che volete scorgere a Intelligenza Artificiale e società della tecnica.
Infatti, la famiglia Otis, che si trasferisce nel castello infestato da trecento anni dal fantasma di Sir Simon di Canterville, omicida dell’amata Eleanor, ora ha fede totale nel progresso, e pena, non orrore del fantasma.

Hiram ha abbandonato gli incarichi politici per la scienza: il baffuto, paffuto patriarca è un inventore di lampadine fiducioso nel divenire e sprezzante dei mezzucci che usa il fantasma per causare terrore alla sua famiglia. Intanto la moglie Lucrezia si eclissa per far avanzare la figlia adolescente Virginia: qui tutt’altro che timida e impacciata, è già adulta e volitiva. Struggendosi di nostalgia per l’America natale, rifiuta la corte del timido conte e si allea con il fantasma per cacciare la famiglia dal castello.

Non solo, ma per donarle massima libertà di manovra, Burdon e Chandler cancellano l’altro figlio: il rampollo mondano Washington, mentre disegnano fedelmente i gemellini Otis: piccoli combinaguai in cerca di avventure con il fantasma.

La risciacquatura al femminile della storia, allora, opacizza l’impianto gotico e il portato spaventevole – il fondali 3D sono sempre nitidi anche nei frangenti più dark –, calcando il sostrato umoristico del racconto.

Eppure proprio lo stile 3D, se è adatto per i campi lunghi sul giardino incantato, sui possedimenti del castello, perfino sui sontuosi interni della dimora, limita il dinamismo dei frangenti action (l’incendio durante il banchetto e la battaglia con la Morte).

Sopravvivono comunque gli stantuffi umoristici della storia (i gemellini guastafeste; il conte innamorato ma impacciato; la crassa governante), merito anche del parterre scintillante di doppiatori della versione originale: Stephen Fry (anche produttore esecutivo) vocalizza lo spettro dei Sir Simon, ma prestano la loro voce ai personaggi anche Hugh Laurie, Imelda Staunton, Freddie Highmore e Toby Jones.

Eppure la storia rimane in piedi finché c’è Wilde: dopo due atti didascalici sì ma anche ritmati, il terzo, nella smania educanda, si rivela smottato e caotico (Giles New e Keiron Self firmano la sceneggiatura), ed è una peccato se si considera la cornucopia di conclusioni alternative proliferata nei secoli.

Invece la storia, pur con licenza di inventare, si accartoccia sullo stesso tema declamandolo più volte e con sempre meno verve: il primato del coraggio individuale sulla scienza, l’amore come unico antidoto alla morte.