Di che cosa parliamo, quando nei nostri ricordi, nei motori di ricerca, nella fredda cronaca dei notiziari, nelle shitstorm d’annata ancora rintracciabili sui social media, ci imbattiamo nel nome di Alex Schwazer? Di una storia italiana lunga 15 anni. Storia che scorre carsica, a tratti alla luce del sole, altrove sottotraccia.

È il 2008 quando il giovane altoatesino Schwazer (a soli 24 anni) domina la maratona alle Olimpiadi di Pechino; è il 2012 quando, alla vigilia dei giochi di Londra, viene trovato positivo all’EPO e, reo confesso (si procurò tutto da solo in una farmacia turca), subì la prima squalifica; è il 2016 quando, a pochi giorni dalle Olimpiadi di Rio de Janeiro, i controlli antidoping puntano ancora il dito contro di lui. Tracce minime di testosterone nelle urine di Schwazer: sufficienti per una nuova squalifica, stavolta di 8 anni. In pratica, la fine di una carriera, ormai impossibile da proseguire sia agonisticamente (nel 2024 Schwazer avrà 40 anni) sia per motivi di immagine (la sua, ormai rovinata definitivamente).

Il caso Alex Schwazer
Il caso Alex Schwazer

Il caso Alex Schwazer

Questi i fatti, oggettivamente accaduti. Sotto gli occhi di tutti è anche la narrazione di questi episodi: il rise and fall di Schwazer è una storia entrata nell’immaginario collettivo, e ha finora conosciuto un’unica versione dei fatti, quella del dopato recidivo da isolare e sottoporre alla gogna pubblica (gogna alimentata, oltre che dai giornalisti, anche da colleghi di Schwazer come Tamberi e Federica Pellegrini, ansiosi di dire la loro forse troppo a caldo).

Poi c’è il non detto, il sottotraccia, quello che a voler esser puntigliosi si può leggere nelle pagine interne dei giornali, ormai fuori tempo massimo: Schwazer, nel 2021, viene penalmente prosciolto dal tribunale di Bolzano per non avere commesso il fatto. C’è stata una macchinazione. Quale? È quello di cui i giornali hanno parlato poco, e che il documentario di Massimo Cappello e Marzia Maniscalco prova a spiegare al pubblico con Il caso Alex Schwazer: l’appendice necessaria a quel poco che abbiamo sentito di Schwazer dopo il 2016, quando si è voluto calare un velo di imbarazzato oblio sull’atleta e sulle sue continue professioni di innocenza. La struttura del documentario è classica, il rise and fall descritto in maniera estremamente lineare.

La prima parte del documentario descrive molto fedelmente, come un viaggio nella memoria condivisa, l’immagine pubblica ridondante e sovraesposta di Schwazer campione olimpico, una vera e propria favola italiana farcita di presenzialismo televisivo assieme alla fidanzata dell’epoca, la pattinatrice Carolina Kostner.

La bolla di sapone fa presto a scoppiare: l’incapacità di Schwazer a non farsi travolgere dal successo è forse la stessa di Totò Schillaci dopo Italia ’90. E qui Schwazer stesso, solo in una stanza, ha il coraggio di mettersi a nudo e rivelare la depressione che lo ha colpito, frutto dell’ansia di non riuscire a ripetersi ma anche dell’essersi ritrovato, finita la festa, improvvisamente solo ad allenarsi con tutte le pressioni a cui veniva sottoposto.

Una solitudine che lo porterà ad autosabotarsi nel più goffo dei modi (coinvolgendo suo malgrado la stessa, ignara Kostner) e a gettarlo sull’orlo del suicidio. Ma è solo il preludio di quella che poteva essere una splendida storia di redenzione sportiva, purtroppo troncata a pochi metri dal traguardo. Entra in scena il primo avversario di Schwazer, il professor Sandro Donati, da sempre in prima linea contro doping e frodi sportive, che per primo lo aveva segnalato all’agenzia antidoping WADA. È lui (come racconta nel documentario, di cui è il vero valore aggiunto) a dare a Schwazer una seconda possibilità, quando tutti ormai gli avevano voltato le spalle.

È l’occasione di riscatto, non solo per il fondista: l’atletica aveva voltato da tempo le spalle a Sandro Donati per eccesso di onestà, sfociata nella pubblica denuncia dei malaffari ai mondiali di atletica di Roma 1987, quelli del 9’83’’ di Ben Johnson, ma soprattutto dell’incredibile salto da medaglia di bronzo di Giovanni Evangelisti (un 8.38 che in realtà era un 7.90 “truccato” dai giudici). Da allora, Donati non ha più allenato in pista. I due, insieme, ottengono negli allenamenti risultati straordinari: c’è da credere che Schwazer, a Rio, avrebbe trionfato di nuovo. Se solo lo avessero lasciato gareggiare.

Il caso Alex Schwazer
Il caso Alex Schwazer

Il caso Alex Schwazer

Da questo momento, inizia una battaglia tra Schwazer, Donati e le istituzioni sportive. Il non detto dalle cronache prende lentamente forma nelle testimonianze dei due sportivi: un mondo, quello dell’atletica, tutt’altro che pulito, con l’Italia ben presente in prima linea (le prime emotrasfusioni supervisionate dal professor Conconi, denunciate da Donati, risalgono ai primi anni ’80), dove il doping viene tollerato e incoraggiato da federazioni conniventi.

Donati è un personaggio scomodo, e colpire Schwazer significa colpire lui: questo, almeno, è ciò che Donati e Schwazer sostengono. Risalire alla verità non è possibile, ma fra ricostruzioni e supposizioni più di un dubbio si crea nello spettatore. E non solo: come spesso succede nelle vicende sportive, abbiamo di fronte due verdetti. Quello della giustizia sportiva, per cui Schwazer è e resta colpevole, e quello della giustizia penale, che a sorpresa proscioglie l’atleta da ogni accusa regalandogli l’ennesima illusione di poter tornare a gareggiare, ancora una volta frustrata dalla WADA che non riconosce il verdetto, confermando la squalifica.

Il caso Alex Schwazer termina così, lapidario quanto necessario: media, giustizia (sportiva) e pregiudizio generano fango al quale troppo spesso si corre il rischio di credere. Ma c’è qualcosa di più importante, ed è la vicenda umana del non più giovane Alex Schwazer: solo nelle sue montagne, è diventato un uomo maturo e consapevole, padre di famiglia e persona felice. E quella vittoria difficilmente gliela toglieranno.