Rifare un film entrato nell’immaginario – con un titolo diventato un modo di dire – è sempre un azzardo, anche se all’origine c’è un romanzo da adattare di nuovo per riposizionarlo nel presente. Com’è noto, La guerra dei Roses, scritto da Warren Adler nel lontano 1981, è diventato un cult, diretto da Danny DeVito nel 1989 e interpretato dagli scatenati Michael Douglas e Kathleen Turner: una satira acida e spietata che svela il lato oscuro (eufemismo) del decennio reaganiano, con la sua sbornia edonista e liberista che si configura nella distruzione dell’istituto matrimoniale borghese.

Se lì c’è l’avvocato DeVito che raccontava la storia a un cliente, in I Roses lo stratagemma narrativo è diverso. Si parte con Theo (Benedict Cumberbatch, senza freni come non mai) e Ivy (Olivia Colman in un altro saggio di supremo gigionismo) in terapia di coppia, che si vomitano addosso le peggiori infamie con il freddo controllo dovuto alla loro identità britannica, un’origine sulla quale sono disposti a scherzare smontando cliché e giocando con gli stereotipi. Un avvio scettico (non credono di aver bisogno di un aiuto del genere) evidentemente funzionale che incornicia un flashback, che si conclude a film inoltrato. È una falsa partenza: un modo per leggere questi nuovi Roses è la chiave britannica, tant’è che il titolo recuperando il gioco di parole originale (la guerra delle due rose).

Dopo l’incontro nella madrepatria, l’architetto frustrato Theo e la cuoca Ivy s’innamorano a prima vista e decidono di trasferirsi in California, dove lui riesce ad avere un importante salto di carriera e lei si dedica alla cura dei figli. Lo shock culturale è evidente (gli americani non afferrano sempre il loro sarcasmo) ma i due si amano e tanto basta. Finché una tempesta si abbatte sull’ultima costruzione di Theo, un enorme museo sormontato da una vela che dovrebbe omaggiare l’identità marinaia dei californiani, mentre le strade bloccate affollano improvvisamente il modesto ristorantino di Ivy, che grazie a una recensione diventa tra i più popolari della nazione. I ruoli si ribaltano: lei vive una vertiginosa ascesa pubblica, lui viene licenziato e cade negli abissi. Che si fa? Come sopravvivere quando l’amore si trasforma in odio?

Olivia Colman and Benedict Cumberbatch in THE ROSES. Photo by Jaap Buitendijk, Courtesy of Searchlight Pictures. © 2025 Searchlight Pictures All Rights Reserved.
Olivia Colman and Benedict Cumberbatch in THE ROSES. Photo by Jaap Buitendijk, Courtesy of Searchlight Pictures. © 2025 Searchlight Pictures All Rights Reserved.
Olivia Colman and Benedict Cumberbatch in THE ROSES. Photo by Jaap Buitendijk, Courtesy of Searchlight Pictures. © 2025 Searchlight Pictures All Rights Reserved. (Jaap Buitendijk)

Trapiantati in un’America che ha concesso loro lo spazio per un sogno ma comunque elitaria e ipocrita, dove i matrimoni resistono solo per noia e la fascinazione per le armi non ha bandiera (le amicizie di Theo) nonostante un andamento sempre più inclusivo (la brigata di Ivy ne è il manifesto), i Roses si ritrovano a essere i protagonisti di un dramma di Harold Pinter piombati in una commedia nera con Alec Guinness (Cumberbatch un po’ lo evoca), un teatro degli orrori a uso e consumo degli americani (gli stessi figli lo sono di fatto). Questi personaggi non costituiscono un coro che commenta i fatti quanto piuttosto un pubblico che si appassiona allo spettacolo “esotico” interpretato dai due barbari europei ben più spregiudicati nel dirsi in faccia le cose e onesti nel farsi del male a vicenda.

Emblematici, in questo senso, il tentativo di risoluzione operato dall’avvocato di Theo (“Immobiliarista, ma d’altronde un divorzio non è una questione di immobili?”: Andy Samberg è sempre una delizia), che chiede ai due litiganti il lieto fine caro alla narrativa hollywoodiana, e quel che dice la disinibita moglie di quest’ultimo (Kate McKinnon, consapevolmente macchietta: non è un caso che sia lei che Samberg provengano dal Saturday Night Live) sul perché il loro matrimonio regga nonostante tutto. È un approccio che permette a questa rivisitazione di tornare alla storia tenendo conto dei cambiamenti socioculturali (nelle relazioni personali, negli equilibri della coppia, nell’emancipazione femminile, nella crisi del patriarcato) e di una diversa sensibilità di fronte alla violenza fisica.

Kate McKinnon and Andy Samberg in THE ROSES. Photo by Jaap Buitendijk, Courtesy of Searchlight Pictures. © 2025 Searchlight Pictures All Rights Reserved.
Kate McKinnon and Andy Samberg in THE ROSES. Photo by Jaap Buitendijk, Courtesy of Searchlight Pictures. © 2025 Searchlight Pictures All Rights Reserved.
Kate McKinnon and Andy Samberg in THE ROSES. Photo by Jaap Buitendijk, Courtesy of Searchlight Pictures. © 2025 Searchlight Pictures All Rights Reserved. (Jaap Buitendijk)

Merito di uno sceneggiatore, Tony McNamara, che non è solo colui che ha reso accettabile Yorgos Lanthimos nel mainstream grottesco (La favorita e Povere Creature!, con protagoniste femminili intraprendenti e scorrette, affascinanti e respingenti) ma anche il coautore del ripensamento narrativo dell’origin story Crudelia. E di un regista, Jay Roach, che nell’ultimo decennio si è specializzato nell’affrontare il rapporto tra politica e spettacolo, che sia nella commedia satirica (Candidato a sorpresa e la serie The Brink), nel period dietro le quinte (Recount sul riconteggio dei voti alle elezioni del 2000, Game Change sulla campagna di McCain e Palin, All the Way sul rapporto tra Johnson e King) o nell’impegno civile (L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, Bombshell – La voce dello scandalo sul fronte MeToo).

I Roses, appunto, si regge proprio sull’incontro tra l’umorismo agro e la tensione dialettica di McNamara e la capacità di Roach nell’infiammare le conflittualità utilizzando al meglio i codici e i ritmi della commedia. Chi conosce la storia può immaginare il finale, ma il film monta la tensione con sagacia: nella cornice di una commedia che si fa sempre più nera e il gioco al massacro si esalta delegando l’azione alla parola. Quando si arriva al corpo a corpo – in uno spazio che è campo di battaglia, simulacro di un’utopia, progetto di una tomba – dopo una serie di sabotaggi violenti quanto le botte tre Douglas e Turner, la ferocia non può fare a meno della goffaggine, il rancore è un cubetto di ghiaccio nell’ennesimo whiskey e il vecchio mondo delle passioni vive (no spoiler) sconfigge quello nuovo della tecnologia efficiente ma “senza bisogni né desideri”.