Antonio arriva a Milano con Pietro, il suo bambino. Malato di cancro, il bimbo dovrà sottoporsi ad un delicato intervento. Nell'ospedale c'è anche Jaber, quindicenne tunisino emigrato tempo fa in città, lì per assistere un caro amico ricoverato. La malattia è l'occasione per un incontro tra due anime sole, due corpi estranei alle prese con il dolore.
Cinque anni dopo Il primo giorno d'inverno, Mirko Locatelli torna a dirigere un lungometraggio di finzione, ancora una volta in collaborazione con la moglie Giuditta Tarantelli, cosceneggiatrice e coproduttrice del film. Che deve molto all'insegnamento dei fratelli Dardenne, per quello che riguarda l'estetica di uno sguardo naturalista (che va di pari passo all'interessante utilizzo delle "lingue" nel film, da una parte l'umbro marcato, dall'altra l'arabo) e poco propenso allo "spettacolo", piuttosto declinato a pedinare gli attimi di un particolare momento della vita dei due protagonisti: Antonio (Filippo Timi) è solo con il suo bambino, ma attraverso alcune telefonate capiamo che a casa sono rimasti la moglie e altri due figli; Jaber (l'esordiente Jaouher Brahim) è lì con altre persone, i familiari dell'amico, altri amici. Soprattutto, al di fuori dell'ospedale, il ragazzo si muove in quella che a tutti gli effetti è da qualche tempo la sua città.
Dignità e pudore: queste le parole chiave da cui muove I corpi estranei per portare in scena un dramma a forte rischio "ricatto emotivo": inattaccabile quando si tratta di empatizzare con la sofferenza di un padre stretto dalla morsa di un dolore così indicibile, francamente rivedibile per quello che attiene lo sviluppo del racconto. "Di fronte al dolore siamo tutti uguali": il claim del film è manifesto sin dalle prime battute, bastano un paio di considerazioni telefoniche di Antonio sugli "arabi" o quelle mani lavate così scrupolosamente dopo la prima presentazione con Jaber. Che alla fine si arriverà ad un punto di incontro è sin troppo prevedibile, mentre rimangono ulteriori perplessità su alcuni aspetti relativi al "percorso" del personaggio di Antonio: d'accordo il tentare di mettere in scena i tempi morti di giornate infinite, ma ci sembra poco credibile la svolta narrativa che lo porterà a lavorare, di notte, come uomo di fatica in un mercato generale: quale padre lascerebbe mai il suo figlioletto a dormire da solo in ospedale?
Un film comunque dignitoso, a cui mancano troppe cose per dirsi pienamente riuscito.