Probabilmente da questa parte dell’oceano non riusciamo del tutto a percepire l’importanza di Harriet Tubman, attivista che ha combattuto per l’abolizione della schiavitù e per il suffragio femminile. Icona nazionale, è stata già rievocata in A Woman Called Moses (era il suo soprannome), miniserie televisiva con Cicely Tyson, a sua volta icona dello spettacolo black.

Ma dove vengono meno la conoscenza dei fatti e l’inquadramento storiografico arrivano – o dovrebbero arrivare – in nostro soccorso due fattori: il ritratto di una grande figura carismatica in grado di allacciarsi alla contemporaneità con tutti i suoi cortocircuiti; e i valori di produzione, in questo caso l’accurata ricostruzione e l’accorata interpretazione.

Nei panni della protagonista, la britannica Cynthia Erivo si è guadagnata una candidatura all’Oscar. Unica afroamericana dell’annata: indicativo che sia stata nominata l’interprete di una paladina antischiavista e proto-femminista. Il film vive di questa performance più coinvolta che coinvolgente, del tutto funzionale all’impostazione celebrativa (leggi: agiografica) di un biopic corretto, interessante per la storia che (ri)porta alla luce, ma senza particolari sussulti.

 

Sì, d’accordo, c’è una componente musicale proposta in maniera intelligente, che offre la suggestione di un cripto-musical (potente la sequenza con Goodbye Song: la colonna sonora è di Terence Blanchard) che con un po’ di coraggio in più avrebbe potuto costituire la carta vincente di questo omaggio sincero e rispettoso quanto scolastico e convenzionale.

Un po’ filmone da Oscar (mancati) e un po’ racconto istruttivo, Harriet si ferma alla prima fase della vita della Tubman, lasciando in disparte gli eventi della maturità a partire dalla sua esperienza come spia dell’Unione durante la guerra di Secessione. In questo senso è coerente con la tendenza maggioritaria del biopic cinematografico contemporaneo (isolare un evento per illustrare un’intera esistenza).

Siamo, tuttavia, ancora una volta nei pressi dell’operazione didattica, l’atto dovuto e doveroso per celebrare un’eroina la cui epopea pionieristica può essere letta in parallelo con le tensioni sociali dell’America di oggi.

 

La lente è il Maryland della metà dell’Ottocento, dove la protagonista, in fuga dal padrone schiavista, si ribattezza Harriet in omaggio alla mamma, viene accolta in una comunità di afroamericani liberati. Quindi decide di portare in sala centinaia di schiavi attraverso un sistema di passaggi nascosti e strade segrete.

È un peccato che la regista Kasi Lemmons (anche lei afroamericana nonché avvezza a un cinema dalle traiettorie musicali) abbia preferito giocare sul sicuro. E forse intimorita dall’operazione si appoggia sulla presenza scenica di Erivo, impegnata in prodezze avventurose che modulano il ritmo di una rievocazione che strizza l’occhio. È un peccato perché negli ultimi anni il genere biografico è stato il terreno imprevisto e ideale per ripensare narrazioni collettive, rinnovare immaginari, intercettare altri generi inaspettati. Non è questo il caso.