Il 14 maggio 1948 Israele dichiara la propria autonomia. Dopo la lunga dominazione straniera e aspre guerre di indipendenza il popolo ebraico riuscì ad occupare l’originaria patria, iniziando a porre le basi per la costruzione della definitiva nazione giudaica. Dall’unione tra tradizione millenarie e un grande anelito verso la modernità e il progresso, lo Stato d’Israele si forma, all’insegna della perfetta commistione tra vecchio e nuovo, tra Occidente e Medio Oriente.

Un insieme in apparenza ossimorico ottimamente materializzato dalla sua città più eclettica: Tel Aviv. Capitale ufficiosa, questa rappresenta l’anima più progressista dello stato israelita, una sorta di isola felice, una bolla dove vivere liberamente e in serenità. Ma è davvero così? Giovanna Gagliardo con Good Morning Tel Aviv tenta di confutare la domanda.

Giovanna Gagliardo - Foto Stefano Cirianni
Giovanna Gagliardo - Foto Stefano Cirianni
Giovanna Gagliardo - Foto Stefano Cirianni

Letteralmente “collina della primavera”, Tel Aviv viene fondata nel 1909 a Giaffa, zona portuale di biblica memoria, già abitata dagli arabi palestinesi, i quali fuggirono dopo la formazione dello Stato. Teatro di grandi ondate migratorie, la neonata cittadina intraprese fin da subito un’urbanizzazione che richiamasse gli elementi distintivi dell’arte moresca, come le strutture di colore bianco e un’architettura di stampo europeo-razionale, comprovando anche nell’ossatura strutturale la combinazione tra contemporaneità e tempo passato. Gli aspetti che confermano la natura moderna di Tel Aviv sono numerosi e il documentario progressivamente li mostra e li svela, spaziando tra argomenti eterogenei eppure necessari alla messa a fuoco di una cultura e della sua popolazione.

Good Morning Tel Aviv si conforma quindi come racconto visivo, valorizzato da una serie di testimonianze rappresentative che spaziano dal sindaco in carica dal 1998 fino a cineasti, scrittori, filosofi ed anche economisti, imprenditori e gente comune. All'esperto sulla demografia e sugli sviluppi tecnologici sussegue la proprietaria di una piccola boutique di manifatture palestinesi o due artisti visuali che decorano le mura cittadine con messaggi d'effetto. In più, filmati di repertorio e declamazioni, decorano la narrazione.

Il tutto in ventiquattro ore, un giorno, che ha inizio dalle folle e dalle luci stroboscopiche dei locali notturni per arrivare alle fasi produttive della giornata, passando da nozioni storiche e specifiche realtà descritte direttamente da chi vive, lavora e respira Tel Aviv.

Il bilancio che ne consegue è quello di una società cosmopolita, priva dei tabù notoriamente affibbiati alle fede ebraica più integralista, ma contraddistinta dal patriottismo attribuibile all’ardimento nel sentirsi un israeliano progredito verso il moderno. Probabilmente sfruttando a proprio vantaggio quell’assenza di storicità (per ovvi motivi) che la differenzia e fortifica, rendendola città-prototipo in costante evoluzione.

Nel film tutto questo emerge, non rinunciando a una lettura critica della storia e della questione palestinese, seppure incastonata solamente tra le righe di alcune considerazioni, e della comunità attorniata da contraddizioni etiche e comportamentali. Un resoconto pieno di spunti dal quale consegue però un altro quesito a cui dover rispondere: come sarà Tel Aviv tra venti anni?