Dopo Il papà di Giovanna, Pupi Avati deve essersi affezionato a quella fotografia un po' polverosa e retrò, con cui ha voluto ritrarre le sue memorie di fine adolescenza nella Bologna anni '50. Una scelta stilistica perfettamente coerente con l'atmosfera e il tono de Gli amici del Bar Margherita, rievocazione di sicuro molto sentita, ma anche sbiadita e carica di nostalgico patetismo. Il film ruota intorno a un punto di ritrovo come tanti, mitizzato da un giovane 18enne che lo considera un club esclusivo e un trampolino di lancio verso l'età adulta. Qui si muove un'umanità non integerrima: maschilista, scanzonata, cinica, e con tanta voglia di assaporare i piaceri offerti dalla rifiorita Italia postbellica (almeno quella del nord). Molti hanno parlato di Amarcord, ma questi "tipi da Bar" intenti solo a elaborare scherzi infidi e passatempi pruriginosi, ricordano piuttosto modelli monicelliani, senza però riuscire a raggiungere lo stesso appeal ed esemplarità. Gli amici del Bar Margherita non sono gli Amici miei, nel senso che risultano geneticamente datati sin dalla nascita, tramontati sotto l'incedere dei tempi e, soprattutto, affossati dal loro stesso carattere macchiettistico, pur smorzato dalla bravura del cast (anche se un Lo Cascio così sopra le righe è uno spettacolo davvero straziante). C'è poco a cui appigliarsi per riconoscere contemporaneità a tale apologia del bivacco, dell'abbandonare le mogli per andare a caccia di donne facili, del vantare la piccolezza delle proprie prospettive. La foto virata in seppia degli Amici del Bar Margherita può scuotere solo un cuore rivolto al proprio passato, verso un'epoca su cui il cinema italiano ha già costruito una copiosa e ben più allettante mitologia.