Tra i problematici tredici anni delle ragazzine di Los Angeles (Thirteen di Catherine Hardwicke) e i tragici sedici anni di Liam (Sweet Sixteen di Ken Loach), si piazzano, sguardo d'autore originale e generazionale, i Fourteen giapponesi di Hirosue Hiromasa, che quattordici anni non ha, ma si definisce "un adulto che allora li aveva". Ed è un adulto che sa raccontarli eccome, i quattordicenni inquieti, violenti, soli, immotivati che bazzicano scuole, strade e negozi di un Giappone in drammatica perdita di identità e di mezzi comunicativi, se non quelli offerti dalla tecnologia, un surrogato ormai disumanizzante. Tra i registi in concorso al Festival di Alba, Hiromasa, lo ricordiamo già vincitore nel 2005, è sicuramente il più convincente e coinvolgente. La sua macchina da presa non demorde nell'inseguire i giovani che entrano ed escono dalle situazioni più diverse, incrociandosi per rapporti umani fittizi o separandosi per rifiuti angosciati, ponendosi antagonisti nei confronti del prossimo e della vita, quella vita che Ryo e Koichi, lei insegnante in analisi e lui professore di pianoforte dai tratti severi, percorrono con il peso di una adolescenza ribelle, problematica e insanguinata alle spalle. Montato sull'arco temporale e narrativo di micro-scene minimaliste, il film apre squarci indelebili sui volti negli ambienti asettici, gli oggetti nei contesti differenziati, le azioni legate da nessi più cinematografici che logici. E' soltanto davanti alla tastiera bianca dello strumento preferito che Koichi detterà, alla fine, la sua massima di formazione, sperimentata prima su di sé e lasciata poi al giovane alunno: il male che fai inevitabilmente ti ritorna. Evitalo, finché sei in tempo. Raccontato e detto così, con tale forza primigenia, c'è da crederci, eccome.