L'elefante blanco è un enorme complesso ospedaliero mai finito. Un'imponente carcassa immersa nella periferia di Buenos Aires. Lì si vive e muore alla giornata: Julian (Ricardo Darin), prete illuminato, e l'amico Nicolas (sacerdote anche lui, Jeremie Renier), fanno il possibile per migliorare le condizioni della gente. Ma Julian è gravemente ammalato e l'altro è sensibile alle tentazioni: dopo qualche tentennamento si abbandona alla passione per Luciana, una delle volontarie (Martina Gusman, nella realtà moglie del regista). Appena la fede di Nicolas vacilla, scoppia la guerra tra cartelli di droga e solo l'intervento di Julian riesce a scongiurare il disastro. Nel frattempo c'è un'esecuzione: uno degli uomini di Julian viene trovato morto. Era un agente sotto copertura che, stanco di quella vita, non ha fatto in tempo ad andarsene. All'amarezza si somma la furia della polizia che chiede vendetta e il disinteresse del governo.
Il regista Pablo Trapero (Mundo Grua, Carancho, tra gli altri) avvolge lo spettatore con immagini suggestive e poi gli mostra un panorama di squallore inusuale: passa dalla giungla alle favelas argentine, assai meno famose di quelle brasiliane e non per questo meno misere e violente. La storia per quanto interessante non è però la parte più forte, sono i personaggi il fulcro del film, soprattutto il protagonista (Darin, folgorante), straordinario e lontano da ogni cliché. Non c'è forzatura o ricatto emotivo: Julian è eroico, ricco di sfumature e privo della retorica militante. Fa parte di quei preti che lavorano silenziosamente nei paesi del terzo mondo. Che hanno scelto di lasciare il benessere per l'impegno sociale e si sono dedicati ai poveri. Un uomo che ispira rispetto e ammirazione, a cui affidarsi senza remore. A memoria, un prete così al cinema non si vedeva da tanto.