Il regista Eduardo Mignogna ha detto che, fra tutti i suoi film, El viento è quello che ha richiesto più tempo per essere realizzato: 64 anni. E non si tratta di aspetti legati ai costi di produzione o a continue crisi creative, perché Mignogna ha appena compiuto sessantaquattro anni ed El viento ha rappresentato il raggiungimento di un sogno: scrivere, come lui dice, circa il senso dell'identità, della colpa e dell'amore. Alla morte della figlia, l'allevatore settantenne Frank, che si pronuncia con la a all'italiana, parte da un remoto villaggio della Patagonia per raggiungere Buenos Aires e comunicare alla nipote Alina che di professione fa il medico, la morte di sua madre. La ragazza se n'è andata dal villaggio diversi anni prima, troncando quasi di netto i rapporti con madre e nonno. La permanenza dell'anziano nella capitale porterà a galla segreti nascosti dal tempo, ma farà anche sciogliere diffidenze e incomprensioni solidificatesi negli anni. E se la prima metà dell'opera sembra attestarsi su un curioso e delicato confronto tra la mentalità di provincia e quella di città, tra la civiltà della Patagonia e quella della metropoli, la seconda parte riserva impercettibili movimenti verso una chiosa ellittica che riporta i due protagonisti ad una sorta di stato brado della comunicazione parentale, ad una tenera e inaspettata riappacificazione. Tutto regolato sulla stratificazione di senso attraverso il lento disvelarsi di Frank e del suo passato e il dipanarsi lieve delle vicende sentimentali di Alina, El viento si appoggia sulla recitazione di due signori attori: lei una bellissima Antonella Costa, già "torturata" da Bechis nelle secrete di Garage Olimpo; lui, Federico Luppi, un totem con il viso scavato dal tempo. E Mignogna non può far altro che aggiungere pudore e rispetto del proprio sguardo d'autore, regalandoci tre/quattro minuti finali di rara bellezza estetica ed emozione sentita.