Pur essendo meno compatto e potente di Bastardi senza gloria, il nuovo film di Tarantino si rivela operazione assai conforme alla precedente, con la quale stabilisce un dittico ideale: anche in Django Unchained il cinema si fa demiurgo della storia, flashback alterato dentro un gesto paradossale, di chi guarda al passato non per riprodurlo di nuovo ma per produrne uno nuovo. Là il nazismo messo letteralmente al rogo dentro una sala cinematografica, qui il razzismo dell'America schiavista e bifolca preso a pallettoni da un "negro" che spara meglio di John Wayne. Intanto Tarantino annuncia di voler ampliare il disegno realizzando l'ultimo capitolo di un'ipotetica trilogia, Killer Crow, su un gruppo di soldati di colore dell'esercito US "fregati" dai loro commilitoni bianchi durante la seconda guerra mondiale.
Tornando a Django Unchained, va detto che le affinità con Bastardi sono anche compositive, essendo entrambi costruiti secondo le modalità di una satira menippea, genere da cui ereditano la difformità tra tema (serio) e tono (comico), la costante ricerca di un registro eccentrico - compito assolto in entrambi i casi dal personaggio di Christoph Waltz, latore di una logica rigorosa e di una prosopopea esageratamente forbita a fronte di un mondo che ha perso la prima e non capisce la seconda - e una struttura narrativa che attraversa tre piani - nella versione latina erano inferno, terra e paradiso - associati ad altrettanti stadi morali della Storia (in Django: schiavitù, prova, liberazione).
Proprio la dimensione profondamente satirica dell'approccio tarantiniano (evidente ad esempio nella sequenza dedicata al Ku Klux Klan) ha fatto storcere il naso a una bandiera del cinema afroamericano come Spike Lee, il quale ha sbrigativamente (leggi: senza nemmeno prendersi la briga di andare a vedere il film) liquidato l'intera operazione come offensiva per la memoria del suo popolo. Ora, Tarantino conferma anche qui una certa inclinazione alla cialtroneria, più di una remora a prendersi completamente sul serio (d'altra parte si riserva un cameo che non lascia dubbi a proposito), una propensione al divertissement capace sempre di tirare fuori il ridicolo dalla tragedia, ma assumere questi atteggiamenti come fossero ora una colpa ora una virtù ci sembra un modo tutto ideologico di negare al regista la possibilità di avere uno sguardo disinteressato e assai personale sul mondo. Morale (moralista?) è semmai il giudizio che ciascuno di noi decide di attribuire a questo sguardo.
D'altra parte Tarantino non fa nulla per nascondere il carattere fittizio degli eventi messi in scena. Il regista si riconnette alla tradizione del western regalandocene una versione stilizzata, da teatro di posa. Mentre il widescreen era stato il marchio di fabbrica del genere, a suggellare pure una politica dello sguardo (libero di muoversi davanti a un orizzonte da abbracciare, conquistare), qui Tarantino opta per obiettivi a focale media che rifiutano il canone rappresentativo/ideologico del western classico per misurare invece una distanza inedita, quella che correrebbe tra proscenio e platea in teatro. Ancora più interessante è la licenza che il regista si prende nei confronti della retorica del genere che ha funzionato come architesto mitico della nazione americana. Tarantino se ne appropria facendola lavorare al contrario: se il western ha saputo imporre un'immagine della Storia attraverso la forza immaginifica delle sue storie, Django è fin dall'inizio un racconto esplicitamente falso (lo dice Schultz/Waltz quando paragona la vicenda di Django a quella di un'antica leggenda teutonica) di un passato incontrovertibilmente vero. Prova ne sia che, a dispetto della assoluta inverosimiglianza dei caratteri e dell'intreccio, Tarantino e la sua troupe hanno scelto di girare in location tristemente note per essere state reali piantagioni dove lavoravano gli schiavi (come quella di Evergreen, dove esistono ancora gli alloggi per i "niggers" poi utilizzati dal film). E' una scelta che dovrebbe garantire un minimo di fiducia morale nell'operazione e metterci in guardia dalla tanto strombazzata etichetta ("omaggio al western") che molti hanno voluto appiccicare al film.
Più scolatico e meno interessante è invece l'altro ribaltamento cercato dal regista, quello iconico, per cui la leggendaria figura del cavaliere pallido è impersonata stavolta da uno schiavo di colore, senza contare quello più interno al suo cinema per cui Christoph Waltz passa dal ruolo di nazista di Bastardi a quello di paladino dell'uguaglianza razziale in Django.
Dello spaghetti western è rimasto il riferimento al titolo (al Django di Corbucci), un cameo di Franco Nero e poco altro. Completamente assente la vena elegiaca del maestro, Sergio Leone, non fosse altro perché in Tarantino la memoria non si configura come nostalgia di un mondo perduto (non potrebbe visto il tema), ma come mondo sempre compresente al nostro (la contemporaneità del non contemporaneo di cui parlava Bloch). Django Unchained dà vita a una serie di analessi in cui il protagonista vede i suoi infelici trascorsi qui e ora, senza che il film "marchi" mai questi momenti mnemonici. Il messaggio, checché ne dica Spike Lee, anche stavolta non potrebbe essere più limpido e morale: il passato alberga continuamente nel presente.Confezione e attori "non protagonisti" sono impeccabili (meglio Waltz di Foxx e Samuel L. Jackson di Di Caprio). Dove l'operazione convince meno è nella durata spropositata (mezz'ora di meno avrebbe giovato) e - proprio per tutto quello che abbiamo detto - nella sua deliberata programmaticità che imbriglia il racconto togliendogli quella genuinità e vitalità che avevano caratterizzato in modo encomiabile Bastardi senza gloria.