Un detective (Park Hae-il) è chiamato sulla scena del delitto. Anzi, no: non lo sappiamo, l’uomo riverso a terra col cranio fracassato potrebbe essere caduto accidentalmente dalla montagna, averlo fatto di proposito oppure essere stato spinto. Sicché il poliziotto rintraccia la moglie del morto, e ne rimane inspiegabilmente attratto nonché sottilmente inquietato: insomma, la liaison s’intreccia con l’investigazione.

È Decision to Leave, titolo un po’ infelice: lo spettatore potrebbe accoglierla anzitempo, rispetto alle due ore e mezza di durata. Comunque, è il nuovo film di Park Chan-wook, il regista coreano celebre per la trilogia della vendetta, ovvero Mr. Vendetta, Old Boy e Lady Vendetta, realizzata tra 2002 e 2005. Il tempo non gli è stato galantuomo: è peggiorato, Thirst (2009), Stoker (2013) e Mademoiselle (2016) un’unica china, e qui, in Concorso a Cannes 75, non si risolleva.

S’è ispirato alle avventure letterarie del detective scandinavo Martin Beck, ha voluto a tutti i costi la bella e brava Tang Wei, ha rimandato a memoria e in cuffia, la ascoltiamo anche noi, la canzone The Mist, e ha confezionato un dispositivo che si vuole lontano dal genere poliziesco, pur legato a doppio filo alla love story e al romance, e vicino alla partitura emotiva, allo studio dei caratteri, al rapporto ambivalente di realtà e finzione, verità e illusione.

Se i topoi del suo cinema sono evidenti, altrettanto esplicito, in questa palese intenzione metacinematografica, è il rimando hitchcockiano, la piega veridittiva che prende il noir, l’assunto ermeneutico che prende la detection: il meccanismo, rispetto ad apparenze e credenze, è a scomparsa, la mise an abyme cercata, la pulsione scopica – si veda il collirio negli occhi del detective – accentuata, l’ossessione fantasmatica evocata.

Lo stile c’è, l’immagine bella ma non stucchevole, la tornitura eidetica sicura, la fascinazione incipiente, ma non basta, incresciosamente non basta: se mangiamo la foglia già alla mezz’ora, nelle due ore che ancora ci attendono che si fa? La storia non è all’altezza del trattamento estetico, e il racconto, che procede per iterazioni, allusioni, andirivieni, giustapposizioni e innesti, rincara la dose: scontato e superfetato, questo è Decision to Leave.

Possiamo ragionare, appunto, sul coté metalinguistico, sulla trasfigurazione del genere, sull’indagine d’amore e via dicendo, ma le carte in tavola quelle sono, la verità pure: Decision to Leave non è un film riuscito.