Inspiegabilmente fuori concorso, Dearest di Peter Chan è finora il più potente tra i melodrammi visti a Venezia 71. Un crescendo di pugnalate al cuore e rabbia e smarrimento e dolcezza e senso d'impotenza dal quale si esce devastati. Di più: è un melo' straordinariamente sottile e moderno, per la sua ammirevole capacità di incidere i sentimenti più profondi e le emozioni primordiali degli esseri umani su un immaginario tavolo da laboratorio dove è steso il corpo stesso della Cina di oggi.
Tratto da una storia vera, Dearest è anche la somma di due melodrammi uguali e contrari che mescola e confonde vittime e colpevoli. Prima a una coppia separata viene sottratto il figlio di tre anni e saranno dolori e colpe e ricorsi a gruppi di sostegno per genitori di figli rapiti, persone sospese in un limbo di sofferenza, tra la disperante speranza di ritrovare i proprio piccoli e la lancinante accettazione di non riaverli più, la sola che potrebbe sganciare il passato e riaprire nuovamente il futuro, ripartendo da un figlio nuovo (per la legge del figlio unico prima di poter ottenere un certificato di nascita occorre richiedere un certificato di morte del precedente).
Poi il bambino viene ritrovato e sottratto a una donna che giura di non aver mai saputo che fosse stato rapito, che lo credeva abbandonato o così le aveva detto il marito, ormai defunto. Per quella donna, che il bambino chiama ormai "mamma", inizia un calvario terrificante, che la vede perdere anche l'altra figlioletta, anch'essa arrivata in casa sua in circostanze particolari.
E inizia un altro film, che è poi lo stesso di prima rovesciato: al posto della coppia la donna, e invece dei poliziotti e dei gruppi di sostegno arrivano orfanotrofi e tribunali.
Tra l'ineffabile verità dei cuori e le sorde certezze delle istituzioni, Chan evita di giudicare, di pesare torti e ragioni. Semplicemente: sceglie di stare con i primi. E noi stiamo con lui.