Rupert Wyatt, regista de L’alba del pianeta delle scimmie, conosce bene i propri strumenti. Il suo Captive State unisce finalmente il genere distopico, fruttuoso quanto abusato, all’ambizione fantascientifica che merita.

Ne nasce un thriller claustrofobico, dove l’antagonista non è tanto l’alieno invasore del tuo pianeta, bensì l’alieno invasore del tuo corpo: un’intrusione ben più allergica nel campo più privato, intimo e inalienabile dell’essere umano.

Nel 2017 un attacco su scala terrestre di una razza aliena superiore mette in ginocchio l’umanità. Questa, per sopravvivere, si piega ai nuovi “legislatori”, che le impongono un regime di repressione e controllo totali. I terrestri hanno salva la vita, ma a quale prezzo?

Rafael e Gabriel sono due fratelli nati e cresciuti a Chicago, privati da giovanissimi dei loro genitori. Rafael, il maggiore, è un combattente, non accetta compromessi con gli alieni o, se è per questo, con qualsivoglia autorità. Gabriel, il minore, è molto più riflessivo e ambisce “solo” a una propria, piccola libertà. Il loro ricongiungersi, dopo una lunga separazione, li costringerà ad affrontarsi l’un l’altro, fino a scambiarsi di ruolo in una ribellione impossibile.

Dopo i recenti, e ripetuti, episodi di leak e datagate, un altro film di ambientazione orwelliana (seppure di matrice extraterrestre) non è una grande novità. Ma, come anticipato, il regista sfrutta un realismo stringente che ben si accosta al budget limitato.

I sotterfugi “analogici” dei ribelli, per nascondersi agli alieni che, più che occhi e orecchie, hanno (letteralmente) cimici dappertutto, sono genuini e efficaci. La sospensione d’incredulità, sebbene macchiata da un’oscurità invadente nei momenti più concitati, è salva per l’intera durata del film.

La colonna sonora elettronica fa da contrappeso inquietante alla calda musica del giradischi, simbolo di speranza. La trama, sviluppata in un racconto corale ai limiti del frammentario, sa accompagnarci comunque, in tensione, fino all’ultimo quarto. Solo qualche inciampo nel ritmo sul finale rischia di alleggerire troppo l’epilogo anticlimatico.

Di contro, è nella fase centrale che Captive State dà il meglio di sé. I tanti volti senza nome che si uniscono, in sequenza, alla causa della ribellione evidenziano un montaggio spasmodico riuscito al secondo. Quello che, in look e atmosfere, guarda all’Arrival di Villeneuve, ha sicuramente seguito la lezione, sul tempo, del Nolan di Dunkirk. Il risultato è un film che osa quanto può e convince quanto deve.