Il Rialto Theatre è uno dei cinema più antichi della California, a South Pasadena. È stato costruito nel 1925, ma ormai da anni non è più in attività. Il regista Damien Chazelle gli ha dedicato un omaggio in La La Land. È il luogo in cui Emma Stone e Ryan Gosling scoprono i grandi classici. Ma a un certo punto, in una sequenza, vediamo che chiude i battenti. Il mito, la leggenda si concludevano. In fondo La La Land era questo: un viaggio sulle nuvole che non necessariamente toccava il paradiso, in cui il Virgilio dello spettatore erano le canzoni.

Babylon è il riflesso di quel desiderio, è l’ambizione sfrenata che si scontra con l’amarezza, l’inizio e la fine di una parabola piena di stelle. Si fa un salto indietro nel tempo. Qui siamo nella seconda parte degli anni Venti, proprio nella fase di passaggio tra muto e sonoro. Non era forse così anche in La La Land? Nel locale dove una volta Armstrong suonava la tromba, nel film si ballava la samba.

Chazelle evidenzia uno degli elementi centrali delle sue narrazioni: il punto di frattura, la transizione. È il cambiamento, intriso di spirito romantico, che distrugge i suoi eroi, cancella generazioni per farne sorgere di nuove. Nel finale di La La Land i due amanti, con uno sguardo, si interrogavano su quello che sarebbe potuto accadere a Parigi, su ciò che non è stato. Un americano a Parigi veniva utilizzato per tornare al presente, per sottolineare la dimensione onirica. E in Babylon? Si esalta la follia, l’erotismo, si entra nel firmamento, ma quella malinconia resta.

A Brad Pitt, che interpreta un divo affermato, viene detto di essere solo una parte dell’ingranaggio, che il sistema è molto più ampio, e lui deve imparare a rassegnarsi. Come in Casablanca. Humphrey Bogart stringeva Ingrid Bergman sulla pista di decollo, e nel momento del lungo addio le diceva: “Avremo sempre Parigi”, l’amore e le sensazioni di quei giorni passati. È la stessa Parigi di La La Land, sfumata, mai raggiunta. È quella Parigi che adesso si fa Babilonia, dove tutto sembra potersi concretizzare. Margot Robbie è la funny girl di cui si può dire: “È nata una stella”, Diego Calva è il galoppino che raggiunge il vertice. Quel sogno è realtà, tutto è eccesso, gioia, edonismo.

I balli sfrenati continuano fino al mattino, Il lupo di Wall Street a confronto è sobrio. È un Hollywood Party, come sottolineava Blake Edwards. Nel film del 1968 c’era anche un elefante dipinto, pieno di scritte hippie, che tutti poi dovevano lavare per non offendere la tradizione indiana. Babylon si apre con l’animale dalla lunga proboscide che deve essere trasportato proprio in una lussuosa villa, pronto a fare irruzione all’apice del delirio.

Ma non dimentichiamoci il titolo. Nella Bibbia è scritto che la città osò sfidare Dio, costruendo la Torre di Babele. Per questo furono puniti, ognuno si esprimeva attraverso una lingua diversa, nessuno riusciva più a comunicare. Il “linguaggio” è quello dal muto al sonoro, è il viale del tramonto che porta al manicomio Gloria Swanson. Il focus di Babylon è quindi sulla follia: quella che rende tutto lecito, che sovraccarica ogni inquadratura, che distrugge ogni regola.

A una prima visione potrebbe sembrare un film che ha perso sé stesso. I protagonisti si sfiorano per poi quasi svanire, le linee narrative si sovrappongono, la durata è oltre tre ore, gli episodi si moltiplicano, tutto è eccessivo, gonfiato. Un caos. Sempre sulle immancabili note jazz, che accompagnano Chazelle, ex batterista, da quando è passato dietro la macchina da presa. Uno dei momenti chiave del film è la jam session, il fluire. Babylon è quindi sinfonia, a tratti pura improvvisazione. Se non ci si ferma in superficie, si scopre che tutto è coerente. Quello che mostra Chazelle non deve avere una logica, rifiuta ogni forma di verità, si stampa la leggenda. Va in scena il mito di Hollywood, non la cronaca. E nei sogni, si sa, tutto è possibile. Fino al risveglio, quando i piedi devono smettere di volare. Chazelle non insegue l’armonia, l’equilibrio. Ancora una volta c’è il desiderio, l’invito a puntare il firmamento, quasi un’ossessione che si faceva tangibile in First Man – Il primo uomo, quando Gosling era Armstrong sulla luna. Uomini veri, avrebbe sentenziato Philip Kaufman, che fanno la cosa giusta (The Right Stuff).

Ma in Babylon non c’è giusto o sbagliato, non ci sono eroi, forse solo qualche inconsapevole pioniere. Il regista dà una forma all’insensatezza, prova a renderla arte, accarezzando l’incredibile, amando visceralmente il grande schermo, in ogni sua sfumatura. È un viaggio tra i generi, che sfocia anche nel brivido, che non si smarca dalle influenze felliniane e sceglie di essere estenuante. Ma si candida per essere comunque una delle esperienze cinematografiche dell’anno, nel bene e nel male. È un cinema sfrenato, coraggioso, pura ambizione.

Di sicuro Chazelle non si era mai spinto così in là. In un’epoca omologata, bisogna credere nel delirio. Ed è quello che ci viene chiesto: crederci, pensare che il Rialto può essere eterno, che il cinema vive e può superare ogni crisi, che la sala può rinascere. È un multiverso? Non lo sappiamo. Di sicuro è un duello, come in Whiplash, tra allievo e maestro, ossessione e talento. Anche Babylon è una frustata. Può far male, respingere, per poi attrarre verso di sé con foga. È un gioco al massacro, una bulimia di situazioni ingestibili che si fanno epopea, un’epopea dello sguardo, uno smisurato atto d’amore, la volontà di rendere l’imperfezione l’unico codice esistente. Estremo, ardito, Babylon è feroce, goliardico, disperato, complesso. Prendere o lasciare.