Luc Besson torna alla regia. Con una tenera fiaba d'amore Piccolo, brutto, scuro, lui. Alta, bionda, avvenente, lei. Gli opposti si incontrano. A Parigi. Un rendez-vous casuale quanto fatale: sia André che Angela si stanno per suicidare gettandosi da un ponte sulla Senna. Ed entrambi si buttano. Lui perché i debiti non gli lasciano scampo. Lei per salvarlo. Tanto basta. Il ritorno di Luc Besson alla regia dopo sei anni di operosa latitanza si deve a un atto d'amore, quello per la splendida protagonista Rie Rasmussen: difficile dargli torto. Pur mosso da - e forse pure concluso in - ragioni sentimentali, Angel-A non si rinchiude in un'idiosincrasia affettiva impermeabile dal pubblico, anzi aspira esplicitamente a una universalità dai toni fiabeschi. Una fiaba calata nella Parigi contemporanea, politicamente tradotta nell'anti-americanismo d'ordinanza e nelle estemporanee tirate anti-razziste, ma anche sottratta all'hic et nunc dalla fotografia in bianco & nero del fedele Thierry Arbogast. In questo territorio contraddittorio Besson installa il conflitto etico-pragmatico tra il truffatore da strapazzo e l'angelo della saggezza, che si riversa nella corporeità, ovvero nella fisicità antitetica dei protagonisti. Non c'è storia, in fondo, ma non manca sviluppo morale. Fortunatamente Besson non si prende troppo sul serio, lascia trapelare dalle immagini l'occasionalità del progetto, quasi si schermisce. E a noi quasi viene voglia di assecondarlo.