Elaborazione del tutto. Raffinata riflessione teorica sul senso delle immagini. Indagine antropologica di Roma e dei Romani.

Si muove su tre livelli interconnessi, interdipendenti Amor, titolo palindromo, si capisce per Roma, “il pianeta della cura”.

Un doc che è un confessionale aperto, senza remore, verso l’Urbe e il materno. Un amor-odio in bilico tra l’ammirazione per la caotica monumentalità e il presentimento, il sospetto, il presagio di morte che la città porta con sé.  

La forza simbolica e antologica delle immagini, allora, istoria la Città Eterna, soffusa e malinconica, materna e matrigna. Una chimera stordente, colta dalla fotografia aerea e fluviale di Simone Rivoire. Al centro il Tevere, utero serpentesco e ineffabile, tra le esondazioni del passato -  testimoniate dai filmati d’epoca- e i senzatetto che ora ne abitano le rive.

Un fiume che taglia e delimita lo spazio di vita, si impone per la sua forza mitica ma anche mortifera. Ne allaga le Piazze (Navona e del Popolo), ne circonda i quartieri. Il Tevere soprattutto che porta la morte, qui si palcoscenico della perdita, cimitero mobile per Teresa, madre della regista.

Il cinema, allora, consente la ricerca interiore dentro uno spazio-tempo, per la sua forza estrattiva - l’unica possibile - per una redenzione che passa necessariamente dall’elaborazione del lutto.

Eleuteri Serpieri padroneggia più stili, allestisce una poetica e una morale solida, allaccia memoria e rappresentazione (a volte anche ri-rappresentazione). La sua cinepresa è enciclpedia visiva, occhio catalogatore e insaziato, collettore alogico di fotografie, voci, memoria, scorci, piazze, acque, volti, immagini altrimenti disguinti tra loro.

Nei rovesciamenti di sensi, nei capolgimenti del visibile, i palazzi di Roma diventano “enormi navi che viaggiano insieme senza toccarsi mai”, la regista-personaggio un marinaio alla deriva che la attraversa con una macchina-zattera, le piazze allagate oceani, i cieli fondali sommersi. 

Eleuteri Serpieri giocando e inventando rovesciamenti di significato, sa unire la più pura, perché stupefatta, analisi antropologica (Roma dal Novecento ai nostri giorni) con lo scandaglio intimista, con il luttuoso ritratto di famiglia. Con le foto d’epoca a scandire il flusso narrativo affiorano, così, la biondezza setosa della madre e il viso invaso da un ombra di morte, la spensieratezza stupita della figlia bambina, luoghi, ponti, piazze della memoria sommersa (il mercato di Collina Fleming, Ponte Milvio, i fiori del giardino di casa).

L’unità discorsiva del film, come detto, consente di incollare foto, cataloga momenti, riallaccia segmenti sconnessi di vita, fissa attimi di quotidianità altrimenti inerti, incolori (i passanti, ancora, in mascherina colti al rallentatore tra Piazzale Flaminio e Piazza Navona).
Il risultato è un raffinato, straziato canto d’amore per Roma dal sapore vagamente morettiano; un audace laboratorio visivo dall’alta concezione formale; una sperimentazione dei sensi che immagini giustapposte possono sprigionare; una fusione concettuale che dona pienezza ai cortocircuiti tra ricordo e presente, memoria e realtà.

A caccia di liberazione, la regista spolvera l’album della memoria, i lacci cinematici tra madre e figlia, tra acqua e corpo, tra passato e presente, tra immagini fisse (fotografia) e immagini in movimento (cinema).

Miglior soggetto per documentari al Solinas 2019, approda  in anteprima Fuori Concorso a Venezia 80.