Una donna, minuta e silenziosa, inghiottita nei meandri senza uscita di un labirinto burocratico, fatto di usurpazioni e violenze, nella Russia di oggi.

Il pretesto di cui si serve Sergei Loznitsa per tornare a dirigere un film di finzione dopo i documentari Maidan, The Event e – soprattutto – Austerlitz – è dato da un pacco tornato al mittente. Quello spedito da una creatura gentile (Vasilina Makovtseva) a suo marito in prigione.

Perché è tornato indietro il pacco? Che cosa è successo al marito? Domande apparentemente semplici a cui rispondere, ma che nessuno – men che meno gli uffici delle istituzioni preposti a questo compito – saprà (vorrà) darle.

Potentissima allegoria sul “qui e ora” di un paese, la Russia, dove non sembra esserci più spazio se non per papponi, faccendieri, uomini e donne allo sbando, il film di Loznitsa (che in qualsiasi festival si rechi, ormai da tre anni, non dimentica di chiedere si faccia qualcosa per il suo collega/amico Oleg Sentsov, regista ucraino incarcerato ingiustamente in una prigione in Siberia, caso tra l’altro al centro del doc The Trial: The State of Russia vs Oleg Sentsov, di Askold Kurov) restituisce atmosfere che sarebbero state care tanto a Kafka quanto a Dostoevskij (qui il riferimento è ovviamente a La mite, 1876) e conferma il talento indiscutibile di un regista che, ancora una volta, sfrutta i long-take in maniera mai banale o artificiosa, proprio come avveniva nei precedenti, altri due film di “finzione”, My Joy e In The Fog, entrambi in concorso a Cannes.

La contrapposizione tra l’essere umano e il decrescere dell’umanità, d’altronde, è un tema ricorrente nella poetica del regista di origini bielorusse e, a ben vedere, A Gentle Creature potrebbe considerarsi una sorta di gemello di My Joy, film anche quello che costringeva il suo protagonista a peregrinare verso il nulla di un sistema malato, ormai privo di qualsiasi speranza.

Loznitsa però alza il tiro, amplifica il contorno, entra in ogni situazione lasciando dapprima in fuori campo il caos (il lavoro sul sonoro, da questo punto di vista, è geniale) e le incredibili cadute di una (dis)umanità allo sbando, facendo letteralmente esplodere la coralità di una massa che, per invadenza dello spazio filmico, ricorda alla lontana quel capolavoro che era E' difficile essere un Dio, opera postuma di Aleksej German, e getta nella mischia questo corpo alieno della creatura gentile – sempre sommessa, mai un urlo, mai una reazione fuori luogo – sballottandola nei gironi infernali di un bordello dove ormai, di gentile, è rimasto davvero ben poco.

E allora non resta che sperare nel lieto fine che solo le favole, o i sogni, a volte possono regalare. Qui il regista calca troppo la mano, costruisce un percorso onirico che conduce ad una casetta nel bosco dove anziché i sette nani, l’improvvisata Biancaneve ritrova i vari, loschi figuri incontrati nel suo infinito andirivieni, tutti vestiti a festa e riuniti per decretare il buon esito dell’ormai infinita questione.

Ma è un “fellinismo” che Loznitsa doveva forse risolvere con un po’ più di agilità, e che chiude nel modo più violento possibile, con la donna tradita e violentata anche dal sogno stesso. Non è più un mondo per le creature gentili, del resto.

Neanche nelle favole.