Tutti abbiamo amato – anzi, amiamo e ameremo – Monica Vitti, magnifica presenza del nostro cinema, figura di caratura mondiale capace di influenzare più di una generazione. Per una volta i superlativi non sono occasionali né ingiustificati, perché Monica Vitti è stata un’eccezione alla regola, un genio che ha inventato un tipo di recitazione che prima non c’era: erede della tradizione teatrale e rivelazione di una modernità spesso scomoda, ha messo a nudo il dolore dello spaesamento e allo stesso tempo la scoperta che “far ridere è come scoprire di essere la figlia del re”.

Spesso tendiamo a ricordare Monica Vitti per la tetralogia girata con Michelangelo Antonioni – e ci mancherebbe: parliamo di un corpus di opere che davvero ha influenzato tutto il mondo – e per una manciata di commedie davvero rivoluzionarie per la scelta di mettere al centro il corpo comico di una bella donna (La ragazza con la pistola su tutti, ma anche le collaborazioni con Alberto Sordi, che l’adorava). Come altre attrici capaci di incidere sull’immaginario, Monica Vitti vive e rivive nella memoria, nel vissuto, nella sensibilità di chi ha imparato ad amarne l’immagine (che è anche sostanza) e celebrarne l’icona.

Ma Monica Vitti è stata tanto altro, soprattutto è stata una cineasta audace, spericolata, coraggiosa. Per omaggiarla oggi che non c’è più, riscopriamo alcuni film un po’ dimenticati e meno esposti nella carriera di Monica Vitti.

Il disco volante di Tinto Brass (1964)
Per emanciparla dall’immagine drammatica, ci voleva un regista fuori dall’ordinario. Cioè il giovane Brass, un veneto che arrivava dall’incandescente opera prima Chi lavora è perduto. Scritta da Rodolfo Sonego, altro veneto, è una satira fantascientifica di gusto inglese che fa ironia sui congressi interspaziali e sulla ricerca di incontri ravvicinati del terzo tipo dopo la psicosi americana della guerra dei mondi. È anche il film del primo incontro tra Sordi e Vitti: lui dilaga in quattro personaggi, lei è l’irresistibile amante di uno dei quattro e pronuncia una frase che diventerà simbolo dell’erotomane Brass (“Dime porca che me piasi de più”).

La minestra (episodio di Le bambole) di Franco Rossi (1965)
I film a episodi degli anni Sessanta rappresentano un momento fondamentale nel percorso di avvicinamento di Monica Vitti all’universo della commedia. Dopo i primi consensi per Le quattro verità (1962) e Alta infedeltà (1964), trova un grande personaggio nello sketch di questa raccolta di scaltrezze femminili. Su soggetto di Rodolfo Sonego sceneggiato da Luigi Magni, Vitti è una moglie che prova a organizzare l’omicidio del marito violento. Tra macabro e grottesco, in un bianco e nero fortemente contrastato che esalta le facce deformanti dei borgatari, la discrepanza tra la periferia e il centro, il rumore della minestra sorbita dal marito.

Modesty Blaise - La bellissima che uccide di Joseph Losey (1966)
Il tentativo di lanciare la musa di Antonioni nel cinema internazionale si arena in questa simpatica follia all’epoca un po’ bistrattata ma oggi di culto. Cinecomic ante litteram che arriva negli anni dell’esplosione dei film tratti da fumetti (Barbarella, Diabolik, Batman), è allo stesso tempo un “mancato” film d’autore che parafrasa le spy story del periodo piegandole in parodia. Tutto sopra le righe, un bizzarro e stravagante trionfo pop con derive camp (la spietata villain Rossella Falk) in cui Monica, incantevole e scatenata, trova un’occasione per dare sfogo al suo spirito avventuroso e brillante.

Monica Vitti in Modesty Blaise - La bellissima che uccide (Webphoto)
Monica Vitti in Modesty Blaise - La bellissima che uccide (Webphoto)

Monica Vitti in Modesty Blaise - La bellissima che uccide (Webphoto)

Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo! di Francesco Maselli (1967)
C’è stato un momento, poco prima dell’esplosione del Sessantotto, in cui il compagno Citto decise di darsi alla commedia. Ma non “all’italiana”, per carità, piuttosto quella sofisticata alla maniera hollywoodiana. Però sovvertita dall’interno, senza concessioni ai buoni sentimenti né ai conformismi borghesi, con il pugno chiuso e un occhio alle masse. L’operazione, patrocinata da Franco Cristaldi, non riuscì né con l’elegante ma fiacco Ruba al prossimo tuo… con Claudia Cardinale e Rock Hudson né con questa bizzarra avventura di lusso in cui Vitti spartisce scena e bottini con Jean Sorel. Niente di sconvolgente, però testimonia bene il tentativo di posizionamento commerciale degli autori di sinistra e l’audacia di un’attrice disposta a mettersi in gioco.

Ti ho sposato per allegria di Luciano Salce (1967)
Diretta da Luciano Salce (un regista che l’ha sempre guidata con dedizione, come nella spumeggiante pochade L'anatra all'arancia), Vitti prende il posto di Adriana Asti nell’adattamento della commedia di Natalia Ginzburg in una delle più divertenti e consapevoli operazioni pop art del nostro cinema mainstream. Tutto chiuso in un bellissimo appartamento con vista pazzesca su Roma dal décor che è un trionfo di pezzi design d’epoca, accanto a due colonne del teatro (Giorgio Albertazzi e Italia Marchesini) e a una stellina in ascesa (Maria Grazia Buccella), Vitti divora la scena: buffa, insicura, seducente, malinconica, senza pace. Salta sui materassi, rompe l’ordine costituito, parla come un fumetto.

Gli ordini sono ordini di Franco Giraldi (1972)
In uno dei due film girati con Giraldi (l’altro è La supertestimone), umile e raffinato regista mitteleuropeo, Vitti ha l’intelligenza, l’acume, l’abilità di non mettere da parte il suo portato drammatico ma di gestirlo e reinventarlo in funzione umoristica: casalinga infelice, stanca del matrimonio, inizia a sentire una voce che le ordina di compiere azioni fuori trasgressive. All’origine c’è Alberto Moravia, la sceneggiatura è di Ruggero Maccari e Tonino Guerra (gustoso link con Antonioni), la nostra si esalta nel ruolo tipico della borghese smarrita che si ribella al marito dominante, trovando la forza – e offrendo l’ispirazione alle spettatrici – quando capisce di poter essere indipendente.

Amori miei di Steno (1978)
Iaia Fiastri scrisse questa commedia teatrale con musiche alla metà degli anni settanta per la regia di Garinei & Giovannini e l’interpretazione di Ornella Vanoni, ma l’avrebbe potuta scrivere in qualunque altro momento storico. È una pochade, una farsa senza troppe pretese con i personaggi dai nomi comuni (Anna, Marco Rossi, Antonio Bianchi), più un veicolo per esaltare la maestosa protagonista che la rappresentazione di una crisi. La trasposizione non è sempre briosa, certe pratiche sono un po’ seccanti (il velino), ma si tratta di uno dei rari one women show del nostro cinema, nonché all’epoca un ottimo successo di cassetta. E un’ode al talento di Monica Vitti.

Il cilindro di Eduardo De Filippo (1978)
È la versione televisiva di una commedia del 1965, capitolo tra i meno fortunati della Cantata dei giorni dispari (la raccolta dedicata ai “giorni negativi”, con storie che affrontano i problemi sociali), un atto unico sulle contraddizioni del boom economico, sul divario tra popolo e potere, sulla persistenza della menzogna in una società senza valori. L’attrice, che a prima vista potrebbe apparire come un corpo estraneo all’universo eduardiano, si rivela invece sorprendentemente convergente alla poetica del maestro. E la sua maschera romana, esuberante e malinconica, isterica e romantica, si incastona benissimo nel cast napoletano (oltre a Eduardo ci sono il figlio Luca, Pupella Maggio, un giovanissimo Vincenzo Salemme).

Monica Vitti in Ragione di Stato (Webphoto)
Monica Vitti in Ragione di Stato (Webphoto)

Monica Vitti in Ragione di Stato (Webphoto)

Ragione di Stato di André Cayatte (1978)
Che ci fa la nostra commediante più rappresentativa in questo dramma politico francese? Dietro la macchina da presa c’è l’allora sessantanovenne regista francese, all’ultimo film, uno che in carriera ha vinto due Leoni d’Oro, un Orso d’Oro, due premi a Cannes e si è guadagnato la disistima dei Giovani Turchi dei Cahiers du Cinéma, che condannavano l’impianto a tesi delle sue storie sempre focalizzate sul rapporto tra giustizia e morale. Davanti all’obiettivo c’è lei in un ruolo inedito: un’italiana che indaga sulla misteriosa morte di un suo amico biologo, pesta i piedi ai servizi segreti, combatte contro i trafficanti di armi, viene accusata di spionaggio, finisce male. Un’occasione rara per una che, in quegli anni, trionfava al box office con pochade e farse non sempre all’altezza della sua grandezza.

Scandalo segreto di Monica Vitti (1990)
L’ultimo lavoro cinematografico di Monica Vitti è anche la sua opera prima come regista, benché anche Flirt (1983) e Francesca è mia (1986), diretti dal compagno Roberto Russo, le appartengono totalmente. Pur con qualche ingenuità è un film piuttosto irrisolto e comunque notevole: una donna riceve in dono una telecamera, riprende casualmente un appuntamento del marito con una vecchia amica, divorzia, decide di morire, scopre la verità. Quasi dialogando con una suggestione di Blow-up, è una riflessione sulla verità delle immagini, una constatazione del deficit d’ossigeno della commedia borghese, un presagio della televisione dei reality. Abbastanza dimenticato, meriterebbe un passaggio.