“Gli ultimi 3 anni sono stati un’esperienza molto formativa, ho ricevuto dal tempo e dagli altri molta saggezza” esordisce Nate Parker, riferendosi alle dichiarazioni del 2016, sulle accuse che lo vedevano protagonista. “Prima ero cieco verso la realtà e nel modo di approcciare le persone, non sono stato attento. Mi scuso con le persone che ne hanno sofferto”.

Poi, però si torna a parlare del film, nella conferenza che lo vede ospite di Venezia76, come scrittore, regista e attore di American Skin, presentato nella sezione Sconfini. “Con questa pellicola ho cercato di riflettere l’attualità, che è il compito dell’artista secondo Nina Simone, ma per ridare speranza alle future generazioni. Poter continuare a farlo è un privilegio. Non do niente di tutto questo per scontato”.

E Spike Lee, in veste di padrino, cosa ne pensa del percorso di Nate Parker? “Era un po’ che non ci parlavamo, a dire la verità. Un giorno mi ha chiamato, voglio mostrarti un film, mi fa. Ebbene, non ero scosso da un film come questo da tantissimi anni. Ho accettato di fare tutto quello che voleva, ma non prima di una chiacchierata privata, da fratelli, per quanto accaduto nel 2016. Ho capito la crescita e il dolore che aveva attraversato. E sono salito a bordo”.

Ringraziati specificatamente da Parker (“Siamo qui anche grazie al loro sostegno emotivo e finanziario”), commentano il momento di cinema e società anche i due produttori, Mark Burg e Tarak Ben Ammar. Il primo dichiara: “Questa storia andava raccontata. Abbiamo un Presidente che divide il paese, invece di unirlo. Credo nel sistema giudiziario e di polizia del mio paese, ma c’è bisogno di aprire un dialogo con la gente quanto prima”.

Il tunisino Ben Ammar, dal canto suo, racconta la sua folgorazione: “Sono andato a trovarlo anni fa per The Birth of a Nation, che mi ricordava per qualità i grandi maestri del cinema europeo. Quindi mi sono chiesto perché non lo conoscessimo, in Europa. Volevo assolutamente fare un film con lui”. E aggiunge: “Tecnicamente è la prima volta che una società europea produce un film americano girato in America, forse dovremmo imparare qualcosa da quest’esempio”.

Inevitabile, visto il carattere sociale e le tematiche civili di American Skin, arriva il momento di discutere d’attualità. E nientemeno che Spike Lee apre le danze: “Il nostro ex Presidente, Barack Hussein Obama, aveva annunciato che le elezioni successive sarebbero state importantissime per il futuro del paese, e guardate cos’è successo”.

Prosegue: “L’agente arancione – non lo chiamo per nome – ha fatto molte cose negative, ma una è spregevole più di tutte: strappa bambini dalle braccia materne, divide famiglie per metterle in gabbia. E non fa nulla per riunirle! Gli U.S.A. si ritengono la culla della democrazia, con un Presidente leader del mondo libero… Ma lui non sta liberando nessuno, anzi, rinchiude le persone”.

Interviene a questo punto Nate Parker: “Credo ci sia un’urgenza, in America ma anche globalmente. Se affrontiamo certe conversazioni solo nelle nostre case, limitiamo le possibilità che, invece, sono offerte dal cinema. Raccontare una storia come questa, emozionandosi in sala e parlandone fuori a cena, può far nascere un movimento positivo”. E riflette sulle possibili conseguenze: “Non sapremo mai se, quante e quali vite cambierà, né che effetti avrebbe potuto avere un messaggio come questo, se ascoltato nel passato. Se viene salvata anche solo una vita, allora sarà il film più importante che abbia mai realizzato. Stiamo cercando con Spike di farlo vedere nei dipartimenti di Polizia, ai poliziotti e agli addestratori, per modificare qualcosa”.