Nate Parker, dietro e davanti la macchina da presa per il suo secondo lungo, American Skin, a Venezia76 nella sezione Sconfini, sa come confondere lo spettatore quel tanto che basta per rendergli più chiaro un concetto, convincerlo che colpirà da una parte quando, invece, intende farlo a tradimento dalla parte opposta. Sa come infiltrarsi sotto la pelle di cui parla il suo titolo e, seppure non americana, farla rabbrividire.

Una crew di ragazzi di colore vuole girare un documentario sull’ennesimo incidente di violenza razzista da parte di un poliziotto, poi (frettolosamente?) scagionato dal tribunale. Inizia così, come un film nel film, in bilico tra la camera diegetica e quella extradiegetica. Attori che guardano nell’obiettivo, emozioni che non sembrano, sono reali.

Difficile distinguere la linea della fiction, anche perché una vera linea non c’è. Ma questo American Skin si appella tanto da vicino e con tanta veemenza alla realtà di un paese ancora e, sinora, sempre diviso, che quella linea di distinzione dobbiamo crearla noi stessi. Naturalmente, per poi vederla travalicata, con sorpresa, rabbia e dolore.

Questa la potenza di un lavoro ambizioso con consapevolezza e, come se non bastasse, grande conoscenza del mezzo. Tale da portarsi dietro una performance attoriale vibrante e convincente praticamente da ogni interprete. Non sorprende affatto che Spike Lee approvi l’operato del regista che, già nel 2016, aveva sorpreso con Birth of a Nation e che, sempre più, sta delineando un proprio peculiare linguaggio.