Scena per scena, quasi inquadratura per inquadratura, Funny Games di Michael Haneke, in uscita l'11 luglio nelle sale italiane distribuito e co-prodotto da Lucky Red, è il remake in lingua inglese dell'omonimo film diretto dallo stesso regista austriaco nel 1997.
Perché un cineasta del calibro di Haneke si è imbarcato in questa operazione di "copia carbone"? Perché, ipse dixit, il pubblico d'elezione dell'originale avrebbe dovuto essere quello americano: "Funny Games nasceva quale reazione a un certo cinema americano, alla sua violenza, alla sua natura naïf, al suo modo di giocare con degli esseri umani". Ma quel Funny Games non aveva raggiunto gli spettatori stelle & strisce, da qui la necessità di un remake in inglese, che costituisce pure la prima opera di Haneke in quella lingua.
Diciamolo subito, entrambe le versioni sono difficilmente dimenticabili, entrambe disturbanti come poche altre, entrambe a infima digeribilità, nel senso e nell'accezione care al regista de La pianista, che ci costringeva alla visione delle auto-mutilazioni di Isabelle Huppert, e dello sfiancante e misterioso Caché. Haneke si conferma provetto manipolatore di emozioni, capace di giocare con le nostre paure con chirurgica precisione, un sadico serafico, ultimo alfiere di una stirpe cinematografica che annovera, tra gli altri, mostri sacri quali Alfred Hitchcock e Stanley Kubrick.
Un sadismo cinematografico inteso da Haneke quale critica alla exploitation hollywoodiana, che relega lo spettatore al ruolo di assetato consumatore di thriller sanguinolenti: una sorta di "trattamento omeopatico", come ha scritto Scott sul New York Times, per un pubblico in terapia di immagini di sofferenza.
Già variante postmoderna di Ore disperate di William Wyler del 1955 (rifatto da Michael Cimino nel '90, con Mickey Rourke nella parte di Humphrey Bogart), Funny Games ci presenta una coppia borghese di gusto e cultura, ora interpretata da Tim Roth e Naomi Watts (straordinaria), che arriva nella casa di vacanze a lago, con l'adorabile figlioletto (Devon Gearhart, ottimo esordiente) e il golden retriever Lucky (sic!): tutti e quattro cadranno vittime di due ragazzi biondi, in completo da tennis bianco e guanti dello stesso colore (Michael Pitt, di gran lunga alla sua prova migliore, e Brady Corbet), che ci fanno immediatamente pensare ad Arancia meccanica e, ancor più, alla gioventù hitleriana. "Perché fate questo?" dirà Roth, con una gamba rotta, le mani legate e il terrore negli occhi; Pitt risponde con parodie delle motivazioni solitamente addotte in casi - cinematografici - analoghi: infanzia infelice, instabilità sessuale, risentimento di classe, cattiva istruzione. Ragioni nonsense, per un film simulacro, copia di un originale che riesce a farci credere mai esistito: non è poco, anzi è moltissimo.
E nel discorso finale dei due sadici su materia e anti-materia, fedelmente riportato, era già tutto il senso e la necessità di questo raddoppio: Games over.