“Il folle amore della mia vita è stato il cinema” confessa Marina Cicogna nel succoso memoir appena dato alle stampe, Ancora spero, scritto con Sara D’Ascenzo. Dove per cinema si intende tutto: il pubblico e il privato, l’impegno e il divertimento, il lavoro e il piacere, la famiglia e gli amici.

Un film – o una serie, tanti sono gli episodi e i personaggi da tenere in conto – forse non renderebbe giustizia alla vita della contessa Cicogna Mozzoni Volpi di Misurata, aristocratica per lignaggio e sguardo, a suo modo pioniera nell’industria italiana e perciò onorata con il David di Donatello alla carriera della 68ª edizione dei Premi David di Donatello (cerimonia di premiazione mercoledì 10 maggio in prima serata su Rai Uno).

Perché prima produttrice del nostro sistema naturalmente patriarcale, rampolla della nobiltà veneziana che attraverso il racconto per immagini ha voluto proporre (imporre, considerando il carattere e il carisma della signora) una certa visione del mondo.

Aperta e senza confini, libera e a volte libertina, moderna per definizione, ribelle per vocazione. Il cinema lo conosce da ragazza, sui set e nel jet set (“era in ogni luogo, in ogni casa che frequentavo”), nella costellazione familiare anzitutto: nel 1967 il fratello Bino ottiene la maggioranza della Euro International Films, casa di distribuzione e produzione romana, e lei lo segue, sfidando le diffidenze altrui (parenti in primis), annusando l’aria del tempo (la contestazione giovanile, la rivoluzione dei costumi, la liberazione sessuale), lanciando lo sguardo oltre gli steccati.

Marina Cicogna - WEBPHOTO
Marina Cicogna - WEBPHOTO

Marina Cicogna (Webphoto)

Incappa in Helga, un documentario della Germania Ovest sul percorso di una donna incinta (Lo sviluppo della vita umana e Il concepimento, la fecondazione, la nascita, i problemi sessuali sono due dei sottotitoli con cui circola), ne coglie la portata scandalistica, assolda Enrico Lucherini che arruola comparse per fingere malori durante le scene del parto. E indovina il maggior incasso italiano della stagione 1967-’68.

Nel suo primo anno di attività, torna a Venezia (nido con cui tesse un rapporto problematico e malinconico: questioni di famiglia), chiamata dalla Mostra con ben tre film in Concorso. Non male per un’esordiente: a Bella di giorno va il Leone d’Oro, con Lo straniero lavora al servizio dell’amato-odiato Luchino Visconti, in Edipo re interviene in corsa per salvarlo dal dissesto.

Torna con Pier Paolo Pasolini per Teorema, imponendo Terence Stamp al posto di un ragazzo di vita desiderato dall’autore, asseconda Monica Vitti che brama quella Ragazza con la pistola che Mario Monicelli sta per girare con Claudia Cardinale, sfida Dino De Laurentiis convinto che i titoli non debbano contenere la parola medico (e con l’Alberto Sordi della mutua sbanca al botteghino).

La svolta, professionale e romantica, è Metti, una sera a cena, film che ostinatamente vuole, barcamenandosi tra le ostilità della Euro, i capricci di Giuseppe Patroni Griffi, il forfait all’ultimo di Gian Maria Volontè (a disagio con un film così borghese): ma c’è Florinda Bolkan, per vent’anni sua compagna, al massimo splendore, il box office le dà ragione, Ennio Morricone consegna ai posteri un’indimenticabile bossa nova. Per ripicche personali, Visconti, presidente di giuria al Festival di Cannes, nega il palmarès al film, addirittura premiando il protagonista Jean-Louis Trintignant per Z – L’orgia del potere e non per Metti, una sera a cena.

Florinda Bolkan e Tony Musante in Anonimo veneziano (Webphoto)
Florinda Bolkan e Tony Musante in Anonimo veneziano (Webphoto)

 

Florinda Bolkan e Tony Musante in Anonimo veneziano (Webphoto)

Mentre Bino si dedica alle super produzioni (C’era una volta il West, Nell’anno del Signore, La collina degli stivali), Marina sceglie il grande spettacolo d’autore, sotto il segno di Volontè: con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (“Il film più facile da realizzare”) arriva all’Oscar, ma sottovaluta la situazione e non ritira l’Oscar (anzi, non ha mai visto la statuetta, spedita direttamente al regista Elio Petri); vince la Palma d’Oro con La classe operaia va in Paradiso, scuotendo la sinistra per il ritratto dei sindacalisti opportunisti; e poi l’antimilitarista Uomini contro di Francesco Rosi e I senza nome di Jean-Pierre Melville per lanciare il divo militante all’estero (invano).

Franco Zeffirelli l’accusa di finanziare solo i rossi (e la contessa non è certo comunista)? Ecco che lei gli produce Fratello Sole, sorella Luna. La Euro è scettica sulle sue scelte? Domina gli incassi con Anonimo veneziano. Non si dà fiducia alle donne? Punta su Lina Wertmuller, contro l’Euro che per Mimì metallurgico ferito nell’onore vorrebbe Marcello Mastroianni e Monica Vitti e non Giancarlo Giannini e Mariangela Melato; ma dopo certe incomprensioni per Film d’amore e d’anarchia Cicogna rifiuta Travolti da un insolito destino, pentendosene.

Il lusso è di casa, anche quello per il rimpianto: tra tanti classici, resta il dispiacere per non aver potuto produrre Il conformista e Il portiere di notte. Parabola breve, un decennio avventuroso, chiuso con qualche film per stare accanto all’amata Bolkan (Il sorriso del grande tentatore, Le orme) e dalla tragica morte dello sfortunato Bino. Torna, ogni tanto, a ricordarci chi era e chi potrebbe essere (se volesse? O se altri non gliel’avessero impedito?) ma con quei dieci anni si è assicurata un posto nella storia del cinema.