A quasi tre anni dall’inizio della pandemia da Covid-19 possiamo abbozzare qualche nota sulle due tendenze che si sono affermate nel cinema contemporaneo. Da una parte, si cavalca l’occasione dell’allegoria, adattando narrazioni polisemantiche all’altezza di un trauma collettivo, delle sue angosce e dei suoi effetti. Dall’altra, c’è l’idea – produttiva, creativa – di fare necessità virtù: muoversi nei limiti imposti dalle norme, delegare al dialogo l’azione ridotta, riempire con le parole di pochi gli spazi preclusi a troppe persone.

The Good Person, in concorso al XXVI Tertio Millennio Film Fest, fa parte della seconda categoria. E sviluppa al massimo le possibilità date dagli impedimenti. Nel momento storico in cui l’imprevista tragedia della pandemia mette in discussione certezze e comodità, l’israeliano Eitan Anner finge di allontanarsi dalle contingenze del presente per lanciarsi in un discorso che ha a che fare con l’identità e la storia di un popolo. Un discorso che prescinde il tempo, lo trascende, e si colloca su un piano che incrocia la speculazione intellettuale e la rielaborazione creativa.

The Good Person è un film su un film. Sul pensare, fare, subire un film. Al centro c’è Sharon, una giovane e ambiziosa produttrice di Tel Aviv che vive per il lavoro ma deve evitare un incipiente dissesto finanziario. Allora decide di finanziare un film, anzi un filmone. È un punto di partenza, imbarcarsi in un’impresa per evitare la bancarotta, che somiglia ad altri film che appartengono a questo filone. A differenziarlo dagli altri esempi sono le specificità del caso e il registro adottato.

Sharon deve collaborare con Uzi Silver, né giovane né vecchio ma già il fantasma del regista che fu in un passato neanche troppo remoto. La sua vita ha conosciuto una svolta: dal cinema è passato alla religione, è diventato un rabbino ultraortodosso e ora desidera tornare sul set per una rentrée in grande stile. Con il filmone di cui sopra: un adattamento dell’epica storia biblica di Re Saul. Ovviamente il rapporto tra la giovane produttrice rampante e il maturo regista-rabbino è piuttosto problematico. Lui impone dettami, la tratta in modo sprezzante, non si preoccupa di piacere al prossimo. Lei all’inizio fa buon viso a cattivo gioco, pensa al potenziale commerciale dell’operazione e ingoia i rospi, anche se lui agisce in completa contraddizione con le sue convinzioni.

The Good Person (titolo che si presta a più letture) parla proprio di questo: fino a che punto siamo disposti a sacrificare tutto, in primis ciò in cui crediamo, pur di ottenere ciò che vogliamo? Siamo pronti ad assecondare le richieste e le imposizioni altrui per realizzare un progetto che ci interessa soprattutto per la sua ricaduta economica più che per il suo valore etico?

Anner entra nelle pieghe di queste domande mettendo al centro il potere del cinema e la sua capacità di assorbire la vita, imporsi sul privato, costituire lo specchio in cui può riflettersi una collettività. Lo fa in un bianco e nero elegante (con sorpresa finale) e con acume, risentendo dello spirito dei tempi, di quella impellenza nel dire le cose senza indugi che riverbera le ansie e le tensioni di un’epoca. E che rimette in gioco temi come il rapporto tra stato e religione, il multiculturalismo, lo stato di diritto, emancipandoli dallo scontro e trasfigurandoli in un dramma travestito da commedia – o viceversa – che mette in scena, allegoricamente, il conflitto tra laici e ultraortodossi. In fondo è lo stesso Anner a offrire la chiave del film: “Una collaborazione tra una donna laica e un uomo ultraortodosso non è solo “rilevante” ma vitale e urgente. Per me, è un campanello d’allarme per riconoscere che ora è il momento di ripensare, riconsiderare e re-immaginare la nostra vita condivisa”.