Le origini di Alida Valli si perdono nell’austera provincia istriana, al confine tra arte, nobiltà e bellezza. Ma è grazie al Centro Sperimentale che questa giovane ostinata si impone all’attenzione dei critici e rinasce come stellina italiana di prima grandezza. Sono gli anni in cui esplode una vera e propria ondata di “vallifilia” e Alida diventa il simbolo di una generazione intera, quella passata attraverso il cinema dei telefoni bianchi, i film d’opera e le forme più popolari.

Alla fine degli anni Quaranta, il produttore David. O. Selznick le apre le porte dorate di Hollywood, con l’idea di farne la “Ingrid Bergman italiana”. E così Valli recita per Hitchcock ne Il caso Paradine (1947), accanto a Gregory Peck, e ne Il miracolo delle campane (1948) in coppia con Sinatra. Nonostante i consensi ottenuti, l’attrice non accetta di restare incatenata a un sistema produttivo che ne limita fortemente la libertà (professionale e umana).

Così rescinde il contratto con la celebrità monumentale made in USA e torna a lavorare in Europa, per poi (ri)abbracciare un’immagine d’italianità attraverso il cinema di Luchino Visconti, che ne fa la protagonista di uno dei suoi film più controversi, Senso (1954). In principio la parte della contessa Livia Serpieri, coinvolta in una torbida relazione con un ufficiale austriaco in pieno Risorgimento, doveva andare proprio a Ingrid Bergman.

Alida Valli

La fatalità però sorride ad Alida (la vera italiana) che si sottomette umilmente alla visione del Maestro, dando corpo a un personaggio stupefacente, un’eroina melodrammatica oltraggiosamente tradizionale eppure vibrante di una sua verità senza tempo.

Nella sontuosa teoria abissale che il film di Visconti spalanca tra l’opera e il fuori scena, tra il racconto e la Storia, tra l’individuo e il popolo, tra la passione carnale e l’amor di patria, Livia è come una fiammeggiante apparizione in grado di oltrepassare tutti gli strati del senso, una creatura dell’ora (il passato e il domani non le appartengono) dotata di uno sguardo esorbitante, una crisalide di tormento, una Furia velata di nero disposta a trascinare il mondo intero sulla pira dell’orrendo foco.

Il suo urlo straziante nel finale sembra letteralmente squarciare lo schermo. Non a caso, qualche anno più tardi Michelangelo Antonioni lo ripropone a suggello de Il grido (1957), cristallizzando nel mito l’orbita luminosa di questa divina icona e proiettandola verso il cinema a venire (Pasolini, Zurlini, Bava, Bertolucci, Argento, Giordana).