L’acqua purifica, arriva con la pioggia e torna a bagnare la terra concludendo su una nota di speranza il film di Paolo Virzì, Siccità, una distopia che come le distopie più riuscite sa risvegliare la consapevolezza dell’ansia collettiva, una trama apocalittica in cui ritroviamo addensate tutte le nostre angosce, presenti, del passato prossimo, riferite al futuro.

L’acqua manca, le blatte invadono ambienti e palazzi scatenando virus letali, calamità che prima ancora di sciagure umanitarie sono segno drammatico del nostro subire la disfatta della natura, qualcosa da noi causato e da noi scontato a prezzi sempre più alti. L’acqua manca e la penuria asseta, sconvolge e capovolge vite, semina morte. L’acqua manca e consuma i corpi, li scava e li imbruttisce, l’acqua manca e ottunde i pensieri, abbrutisce i cervelli, fa marcire le relazioni.

Tutti i rapporti umani, e ciascun protagonista di Siccità - questa distopia italianissima, anzi romana - sono tramortiti dall’assenza d’acqua in un senso non solo bio-fisiologico, anche in uno immateriale ma altrettanto impietoso. Ricchi e miserabili, drop out e iperintegrati, tutti, nessuno escluso, subiscono l’assenza dell’acqua anche come mancato nutrimento delle loro anime.

L’inaridirsi e prosciugarsi di una linfa necessaria, quell’acqua che imbibendo la terra intanto in senso figurato innaffia e lascia fiorire i sentimenti, crea basi per azioni più elevate dello spirito. I personaggi di Siccità sono prosciugati, donne e uomini senza più salute fisica, né orientamento, né anima. Sole figure “irrorate”, ancora palpitanti e vitali, una ragazzina musicista con frezze verdi nei capelli, e Monica Bellucci, giunonica, candida e sensualissima come solo lei sa essere, non toccata dall’apocalisse in corso, solo curiosa nel voler capire dove il mondo, in caduta libera, stia andando a parare (a finire).

Gli altri senz’acqua deperiscono, muoiono, o a stento sopravvivono, sperduti. Chi riscemito a suon di internet e social, chi inerme spettatore della propria esistenza alla deriva. Nell’arsura, consumati da sete che assedia corpi e anime, per tutti il prosciugarsi di fiumi e condutture è non igiene, irrespirabile polvere nell’aria, malattia, epidemia; ma anche disidratazione dello spirito, del cuore. L’acqua manca e implacabile, mancando, fa impazzire il mondo. Perché l’acqua è Anima ed è consapevolezza, presa di coscienza.

Lo racconta bene il bellissimo Love Life di Koji Fukada, un film dove acqua è tragedia ma anche coscienza, nel lungo tempo del lutto che della tragedia è il proseguo. In una vasca da bagno si consuma un terribile incidente domestico che stravolgerà per sempre le esistenze di tre persone (due coniugi neo-sposi, l’ex compagno della donna), spostando le loro stesse vite da un piano di felicità o infelicità di superficie a uno infinitamente più profondo.

Love Life (Partners & Comme des Cinemas)
Love Life (Partners & Comme des Cinemas)
Love Life (Partners & Comme des Cinemas)

Nella stessa vasca da bagno dove la tragedia si è consumata (un bambino annega, giocando è scivolato) stravolti dal dolore della perdita gli adulti tornano a immergersi. La madre distrutta dal senso di colpa di avere lasciato acqua nella vasca anziché aperto il tappo farla scorrere via. Il suo compagno, travolto dall’identificazione che ogni lutto traumatico porta in sé, a lungo a faccia in giù nell’acqua pur di capire cosa sia l’apnea che precede l’annegamento. Nell’acqua vanno in cerca di sé stessi e di un nuovo, diverso bandolo dell’esistenza, un cammino che li conduca oltre il senso di morte in cui annaspano, vicini all’affogare, i loro animi.

Perché acqua è madre e matrigna. È liquido amniotico immersi nel quale siamo venuti al mondo e a cui sempre vorremmo fare ritorno, ma è anche crudele corrente che sa in pochi istanti (cataclismi e tragedie recenti lo raccontano) portar via tutto quanto più aiuta a vivere, quanto più ci è caro. E acqua è la vita del cuore che sempre più scarseggia, ma cui prima o poi sarà essenziale saper tornare.

Lo dice nel film di Virzì un “esperto”, mentre sulla più lussuosa e frivola delle terrazze romane, blandamente a mollo in una piscina Iacuzzi, si diletta a rispondere ai morbidi quesiti della giunonica Bellucci. L’acqua è “dono da difendere con pazienza e passione”, le dice; un bene sommo da tutelare dal poco o nullo rispetto di noi umani, e dono che tuttavia prima o poi avrà “la terra che gli spetta”. Ma l’acqua, anche, è matrigna: spezza vite, deflagra come una bomba e sommerge, fa annegare, scatena la devastazione di uragani.

La lezione dell’acqua, quella che Love Life racconta magnificamente e i cui personaggi imparano con tanta grazia e maturità profonda, il nostro mondo non l’ha ancora compresa, è evidente. E invero, invece, è lezione alta, cui portare l’attenzione ogni giorno. Tutto scorre, questo anche e per prima cosa l’acqua insegna: ma scorrere, oltre che fluire, presuppone l’adulta fluidità dell’imparare. Sarebbe proprio tempo di capirlo.