PHOTO
Se è vero che lo sciopero degli attori del 14 luglio (che ha aderito a quello degli sceneggiatori di maggio) ha impattato su tutti i grandi festival venuti dopo, come giustamente ha precisato il Presidente Fondazione Cinema per Roma Gian Luca Farinelli, è altresì incontestabile che gli effetti sulla Festa capitolina si avvertono più che altrove: pochissimi i titoli americani, nessuno di una grande major, assenza di star hollywoodiane e al momento silenzio assoluto su una delle sezioni che in passato ha fatto le fortune della kermesse, “gli incontri”, su cui verrà data comunicazione, pare, in un secondo momento.
Gli spiragli che ultimamente si sono aperti sul fronte sindacale di là dell’oceano suggeriscono prudenza, al punto che la stessa direttrice Paola Malanga, ha chiarito che il programma non è ancora completo. Staremo a vedere. Per ora è utile ragionare sugli elementi di certezza da cui la 18ma Festa di Roma, un po’ meno “festa” e un po’ più festival, intende ripartire: i film. Italiani soprattutto, come ci si aspettava: sono oltre cinquanta gli inediti tricolore che sfileranno a Roma, tra lungometraggi di finzione e documentari, sparsi un po’ su tutte le sezioni del festival. Tre in concorso: il ritorno di Roberta Torre con un omaggio a Monica Vitti, Mi fanno male i capelli, con Filippo Timi e Alba Rohrwacher; il noir Holiday di Edoardo Gabbriellini, prodotto da Luca Guadagnino; e l’atteso esordio alla regia di Paola Cortellesi, anche film d’apertura della kermesse, C’è ancora domani.
Un titolo che Paola Malanga ha adottato come slogan del festival non per mettere le mani avanti, ma per invitare a guardare oltre le difficoltà del momento nel pianeta cinema (e nel pianeta in generale). Del resto se il cinema si conferma “l’arte capace di cogliere le trasformazioni del mondo” (Farinelli), quella dispensata a Roma è quantomeno varia, volendo abbracciare più generi (molta animazione, su cui spicca ovviamente l’ultimo Miyazaki, Il ragazzo e l’airone), formati (tra le serie proposte, segnaliamo un recupero: Il camorrista di Giuseppe Tornatore, 5 episodi girati in contemporanea con il film del 1986), registri espressivi (se il concorso si conferma un esercizio di equilibrio tra autorialità e mercato, la sezione grand public è dichiaratamente popolare mentre freestyle con le sue diverse declinazioni è il tentativo di rispondere alle espressioni più fluide del cinema contemporaneo) e altre arti: la musica in particolare la fa da padrona, tra omaggi alla Callas (il centenario della nascita a dicembre), documentari (spicca quello su Zucchero), restauri (Ciao Nì, con Renato Zero).
Il tentativo pare quello di allargare il più possibile la base del festival, coinvolgendo appassionati non solo di cinema. Un’operazione costruita anche sulla formula ormai nota del “festival diffuso” (tra gli spazi coinvolti anche il Palladium e la Casa del Cinema), all’insegna di una kermesse che si ostina ad andare verso il pubblico piuttosto che aspettarlo. Resa anche più necessaria dalla contingenza del momento, quello sciopero che se da una parte rischia di sbiadire il tradizionale tappeto rosso, permette dall’altra una visione meno “viziata” su una proposta chiamata ad illuminare da sola, con la propria qualità, l’ennesimo anno zero di Roma.