Scritto a più mani dai registi, dai divi, dai produttori, il romanzo di Hollywood è un grande universo di storie, un crocevia di biografie parallele in cui le pratiche del set e l’aneddotica del far cinema s’intrecciano con le vicende dell’industria cinematografica e della società americana. Naturalmente David W. Griffith e Thomas H. Ince, i padri fondatori della nuova arte, non sono stati invano. Chi vuole imparare parte da loro, magari vedendone i film al cinema col cronometro in mano per contare gli stacchi, misurare i tempi delle sequenze, carpire i ritmi del racconto.

Nell’autobiografia che s’intitola A Tree is a Tree – “Un albero è un albero, che bisogno c’è di ricorrere a un albero finto?” – anche King Vidor confessa di aver fatto così prima di iniziare con la moglie il viaggio da Galveston nel Texas, in cui è nato, a Los Angeles dove vuole vivere.

Straordinario viaggio di nozze, insieme iniziazione e apprendistato, compiuto su una vecchia Ford Modello T durante il quale non smette mai di fare riprese che invia alla Ford. Negli anni seguenti si rende conto che per affermarsi nella fabbrica dei sogni e sopravvivere al conflitto tra espressione personale e diktat commerciali, bisogna giocare dentro e fuori del sistema. Nessuno tra i pionieri del cinema sembra possedere la stessa capacità di adattamento che fa di questo texano determinato e intraprendente uno dei pochi in grado di convincere i boss a lasciarlo sperimentare.

Se nel ‘25 La grande parata, vibrante requisitoria contro la guerra, non fosse stato con i suoi diciotto milioni di dollari d’introiti uno dei più clamorosi successi del muto, Irving Thalberg fin dal primo incontro non avrebbe dato carta bianca a King Vidor per un film intitolato A Man of People. Quando la settimana dopo, nell’ufficio del tycoon della Metro-Goldwyn-Mayer, gli racconta la storia di John Sims – che nasce in una famiglia povera di Detroit, trova un posto di impiegato a New York, una domenica a Coney Island conosce Mary di cui si innamora, si sposano, hanno due bambini, la morte accidentale della figlia più piccola sconvolge la vita dei coniugi – l’entusiasmo del produttore non diminuisce.

Però non gli piace la parola “people”, che fa pensare alla lotta di classe. Perché non chiamarlo A Man in the Crowd? Anzi, The Crowd? Il film – che in Italia diventa La folla – esce in Usa il 3 febbraio 1928, facendosi apprezzare soprattutto per l’inconsueta energia con cui rappresenta il dramma dell’uomo-massa in una società che senza saperlo va verso la grande crisi del ’29.

Sottraendosi alle convenzioni hollywoodiane, Vidor adotta i metodi che saranno del cinema della realtà, dalla lavorazione in ambienti naturali alla macchina da presa nascosta, dagli attori non professionisti alla drammatizzazione ridotta al minimo. Il rapporto di complicità tra padre e figlio e la tenerezza con cui è colta la vita della coppia, messa in crisi dalle difficoltà economiche, fanno pensare a Ladri di biciclette di vent’anni dopo.